The Heavy Countdown #37: Being As An Ocean, Stray From the Path, Comeback Kid, Paradise Lost

Being As An Ocean – Waiting For The Morning To Come
L’hopecore è un sottogenere ripetitivo e che può risultare stucchevole ai più, soprattutto per i testi intrisi di mieloso ottimismo. Ma i Being As An Ocean sono il top dello “speranza-core”. Sempre più maturi e introspettivi, riescono a utilizzare in modo sempre più sapiente elettronica e melodia. I Nostri danno il meglio nei brani strumentali (tipo “Suddenly I Was Alone”), fondamentali nell’economia di “Waiting For The Morning To Come” come i capitoli di un romanzo breve. Niente di nuovo sotto il sole, mai i BAAO lo fanno meglio degli altri.

Stray From the Path – Only Death Is Real
Più arrabbiati che mai, gli Stray From the Path sfornano un album senza peli sulla lingua, soprattutto quando si parla di politica (vedi la bella citazione da “Nazi Punks Fuck Off” dei Dead Kennedys in “Goodnight Alt-Right”), raccontata in un mix di metalcore puro, hardcore di stampo newyorchese e attitudine alla Rage Against the Machine. E per questo negli States stanno facendo faville sull’onda delle eterne polemiche post-elezione di Trump. Tutto bellissimo, ma molto simile a quanto è stato già fatto sette dischi fa dagli stessi SFTP.

Comeback Kid – Outsider
Nel sesto full-length dei Comeback Kid, “Outsider”, la melodia non è solo cercata con il lanternino, ma anche idolatrata all’estremo, in una costante caccia al gancio giusto che quasi sempre arriva e ti piglia pure bene. I Nostri arrivano a sfiorare il punk rock (se non addirittura il pop punk in “Recover”) pur senza perdere l’attitudine diretta e sfrontata delle origini. Mentre i vecchi storcono il naso (facendo finta di essere) indignati, i giovani ringraziano.

Akercocke – Renaissance in Extremis
Il ritorno degli Akercocke è tanto inaspettato quanto clamoroso, al punto che la critica estera si spertica in lodi esaltate non solo definendo il sesto disco della band londinese “uno dei lavori più interessanti dell’anno” ma anche “un nuovo classico del metal moderno”. C’è da dire che con il progressive death metal di “Renaissance in Extremis” non ci si annoia un attimo, ma non ci si può neanche permettere di distrarsi mezzo secondo per non perdere il filo del discorso. Di sicuro la componente death contribuisce a mantenere il sound con i piedi per terra, evitando di partire del tutto in quarta sulle ali degli svolazzamenti prog. Dedicategli tempo, e vi ripagherà molto bene.

Blindwish – Good Excuses
L’esordio dei Blindwish è una corsa a perdifiato tra pop punk e post-hardcore. Si parte subito a razzo con un’ottima opener, “After Midnight”, talmente orecchiabile da rimanere immediatamente in testa. Ed è proprio questa la più grande qualità di “Good Excuses”: ogni pezzo che lo compone è catchy in modo impressionante, come se i Nostri avessero fatto un patto con il diavolo per trovare sempre il refrain perfetto. Ma come tutte le cose belle, dura poco. Forse un po’ troppo poco, considerando i 35 minuti totali di running time.

Alazka – Phoenix
Come l’araba fenice, gli Alazka nascono dalle ceneri dei Burning Down Alaska. Cambia buona parte dei membri della formazione, cambiano obiettivi e cambia pure il sound. “Phoenix” mostra un lato più melodico della band teutonica (anche e soprattutto grazie all’arrivo del secondo vocalist Kassim Auale) rispetto all’incarnazione precedente, andando spesso e volentieri a sfociare in un hopecore tutto chitarrine e corettoni. Esordio e cambio di pelle interessante, vedremo come cresceranno i ragazzi.

Leprous – Malina
I Leprous ormai sono una garanzia del prog moderno. I norvegesi infatti, hanno limato del tutto ogni aspetto che potesse essere anche solo lontanamente heavy a favore dei chorus memorabili e della melodia (vedi “From the Flame”, “Stuck”, “Coma” e “Illuminate”). Ma nonostante siano (diventati) più “leggeri”, i Leprous sono ben lontani dall’essere accessibili alle masse, complici le loro poliritmie e una ricercatezza molto più profonda di quanto si possa notare in superficie.

Septicflesh – Codex Omega
Il decimo lavoro dei greci è l’ennesima conferma di una realtà solida (e sostanzialmente inimitabile) nel proprio campo. La miscela di death, elementi sinfonici, orchestrali ed etnici ha trovato da anni la propria affermazione nella proposta dei Septicflesh che, anche nel caso di “Codex Omega”, giocano sul sicuro senza rischiare molto. Perfetto per i fan, meno per chi vuole scoprirli da zero. In questo caso conviene partire dal capolavoro “Communion” del 2008.

Paradise Lost – Medusa
I pionieri del doom/death metal ritornano con un album che è un vero e proprio macigno. Complice anche l’arrivo del giovanissimo Waltteri Väyrynen alle pelli, che ha portato carne fresca e rinnovata energia ai Paradise Lost, i Nostri sfornano un lavoro davvero pesante, miscelando uptempo (“Blood and Chaos”) e downtempo (“Gods of Ancients”), che si rispecchiano rispettivamente nell’alternarsi del cantato baritonale o death di Nick Holmes.

Leng Tch’e – Razorgrind
Ritornano dopo sette anni di silenzio i Leng Tch’e con un disco veloce, diretto e brutale come un colpo di rasoio assestato ad arte, appunto. “Razorgrind” è indubbiamente un bel lavoro, che però fa di tutto per non scrollarsi di dosso gli stilemi del grindcore. Ne risente com’è intuibile la varietà, tanto che la (fin troppa) omogeneità tra i ben quattordici brani dell’album non aiuta. Ma sul finire, buttando lì la mostruosa “Magellanic Shrines”, ci fanno finalmente cascare dalla sedia.