The Heavy Countdown #39: August Burns Red, The Black Dahlia Murder, The Ongoing Concept, 36 Crazyfists

August Burns Red – Phantom Anthem
Gli August Burns Red sono il non plus ultra nella loro categoria. La pacca, l’attitudine, l’amore per le costruzioni complesse e gli inserti pescati da generi anche molto diversi dal metalcore (vedi il country), oltre che una coppia di chitarristi che dire talentuosi è poco, sono da sempre le caratteristiche che ne hanno fatto un vero e proprio cult tra gli appassionati. Ma anche in questo “Phantom Anthem” manca il “pezzo”, quello che ti ricordi e canticchi sotto la doccia, per dire. Sono sicura che se solo lo volessero i Nostri ci butterebbero fuori fiumi di brani catchy, ma evidentemente a loro sta bene così. E diciamolo, anche a noi.

The Black Dahlia Murder – Nightbringers
Si respira malvagità a ogni nota in “Nightbringers”, ottavo full-length dei Black Dahlia Murder. E in effetti, i BDM sono una garanzia all’interno di quel melodic death metal/deathcore che va oltre i tecnicismi per prenderti alla gola e toglierti il respiro a suon di pugni nello stomaco. La vera forza della formazione statunitense è il vocalist Trevor Strnad, in grado di profondere ulteriore malignità con il suo cantato viscerale. Se poi ci aggiungiamo un sapore death classico alla Morbid Angel in pezzi come “Jars”, abbiamo fatto del tutto jackpot.

My Ticket Home – unReal
Autoproclamatisi paladini del “puke rock” (un mix di alt-rock, metalcore e hardcore), i My Ticket Home ritornano dopo un silenzio lungo quattro anni con un album davvero convincente. “unReal” denota personalità ad ogni pezzo, sia quando si spinge di più sull’acceleratore (vedi “Hyperreal”), che quando ci si abbandona ad atmosfere più intime e riflessive (“Joi”), non perdendo in nessun caso energia e decisione. Una vera e propria boccata di aria fresca, da dove non ci saremmo mai aspettati che arrivasse.

The Ongoing Concept – Places
Avevamo lasciato gli Ongoing Concept a intagliarsi da soli le chitarre un paio di anni fa (risale proprio all’epoca il secondo, sfiziosissimo disco dei musicisti-carpentieri). E li ritroviamo ora con “Places”, che prosegue idealmente il discorso iniziato in “Handmade” (soprattutto quando si autocitano nelle lyrics, vedi “The Print”), ma con nuove interessanti sfumature e altrettanto fondamentali cambi di line-up (dei membri fondatori resiste solo il vocalist Dawson Scholz). Per esempio l’hardcore imbellettato di glam rock in “Domesticated” e la continua commistione di stili e generi da sempre loro caratteristica, che li rende molto di più di una band metalcore (o post-hardcore, o alternative, è indifferente, le etichette ai ragazzi stanno comunque strette).

Glerakur – The Mountains Are Beautiful Now
Non potete permettervi un viaggio in Islanda ma morite dalla voglia di andarci? Una buona alternativa è sicuramente “The Mountains Are Beautiful Now”, album dei Glerakur, progetto guidato da Elvar Geir Sævarsson, sound engineer del National Theater of Iceland. Le atmosfere magiche che pervadono i cinque pezzi del disco riflettono fedelmente la bellezza di una terra spettacolare e selvaggia, rileggendone le caratteristiche in chiave post-rock con elementi industrial e cinematici. Perfetto da ascoltare durante queste serate autunnali, sognando il freddo e la neve.

Thousand Below – The Love You Let Too Close
Il debutto dei Thousand Below è stato segnato da una tragedia che ha toccato in prima persona il frontman James DeBerg: il suicidio del suo migliore amico. Ma da una simile disgrazia, è nata l’ispirazione per un gran bel disco. “The Love You Let Too Close” sonda il lutto e la sua accettazione musicandolo a suon di post-hardcore, crogiolandosi nella malinconia pur senza risultare strappalacrime, ma confortante come una carezza al cuore (le atmosfere di “Sinking Me” e “Tradition” ne sono un esempio evidente).

Wolf & Bear – Everything Is Going Grey
Avercene di esordi così. I Wolf & Bear non solo si prendono il bassista dei Dance Gavin Dance, ma attingono a piene mani a tutto ciò che rende i DGD terribilmente irresistibili: l’alternanza tra screaming e clean vocals (e quindi tra violenza e melodia) e le chitarrine dal sapore math. Pur essendo molto derivativi, i Nostri riescono comunque a risultare freschi ed innovativi in quel che fanno, buttando fuori un lavoro che non potrà far altro che mettervi di buon umore.

Johari – Terra
Per i nostalgici del sound tipico dei Tesseract nell’era Ashe O’Hara, arrivano i Johari con il loro secondo disco, “Terra”. Siamo di fronte a un’opera djent/prog-core di livello, anche se estremamente derivativa (vedi sopra), ma in grado di avvolgere e dare conforto tra le sue volute ambient e di dare la carica con i suoi guizzi post-hardcore. Pur non rivoluzionando nulla, “Terra” è un’opera che nel suo giro non passerà inosservata.

Spotlights – Seismic
Descrivere il secondo lavoro degli Spotlights è un po’ come descrivere il mostro di Frankenstein per la miriade di pezzi tagliati e cuciti qua e là. Ma se la creatura abominevole è destinata a fare una brutta fine, non vale lo stesso per i Nostri. Infatti “Seismic”, tornando a bomba, è un disco che va a pescare nello shoegaze e in quello che ho sentito definire come “dreamy sludge”, accarezzando pure Deftones e Alice In Chains. Unica avvertenza: non fatevi spaventare dalla durata dell’album (più di un’ora).

36 Crazyfists – Lanterns
Già dalla cover di “Lanterns” si intuisce dove i 36 Crazyfists vogliano andare a parare. Il settimo full-length della band originaria dell’Alaska infatti rispecchia un periodo particolarmente buio nella vita privata del frontman Brock Lindow, che ha trovato la giusta terapia nella scrittura del nuovo disco per affrontare le difficoltà di un divorzio. Questa sana vena di malinconia si riflette nel sound di “Lanterns” che spesso però (vedi “Sleepsick”) non si discosta dalle caratteristiche tipiche dei Nostri, e non aggiunge molto alla loro discografia.

Act Of Defiance – Old Scars, New Wounds
Secondo album per gli Act Of Defiance, supergruppo che vede tra le sue fila Chris Broderick e Shawn Drover (entrambi ex Megadeth), Henry Derek Bonner (ex Scar the Martyr) e Matt Bachand (ex Shadow’s Fall). In “Old Scars, New Wounds” gli AOD riescono a far confluire tutte le peculiarità tratte dalle band da cui provengono, riuscendo a bilanciarle in un disco che consolida l’identità e l’unità della formazione al di là delle loro origini. E pezzi come “Circle of Ashes” ne sono la dimostrazione.

Kublai Khan – Nomad
Il quarto lavoro dei Kublai Khan si attesta (quasi) a metà strada tra un hardcore dei più semplici e brutali e un metalcore tutto breakdown (e poca) melodia. Dico quasi perché in “Nomad” l’ago della bilancia è più che spostato verso la componente hardcore, e si prende poco la briga di esplorare territori che non vadano al di là del naso dei nostri quattro ragazzotti texani. “Nomad” va benissimo se siete fan sfegatati del modern hardcore, altrimenti, per carità, dateci un ascolto, ma senza troppe aspettative.

Awaken I Am – Blind Love
Non più tardi dell’anno scorso dicevo che il “bierbercore” sarebbe stata la next big thing del 2017. E infatti, abbiamo visto tantissime band che si spacciano per post-hardcore simil-Too Close To Touch spuntare fuori come funghi in autunno. Anche gli australiani Awaken I Am hanno deciso di saltare a bordo di questo trend senza pensarci troppo, dando alle stampe il secondo disco, “Blind Love”, che però si fa ricordare solo per un’eccessiva sdolcinatezza, eccezion fatta per la conclusiva “Wolves”. Peccato.