È uscito venerdì 20 aprile, a tre anni dall’ultimo “Overflow” e si intitola “Social Habits” il terzo disco della band livornese Platonick Dive. Un lavoro ambizioso, che in dieci tracce unisce innumerevoli contaminazioni musicali dall’elettronica, allo shoegaze, all’ambient, al down tempo, il tutto con l’aggiunta della voce, novità principale di un disco di svolta.
Di respiro internazionale sin dagli esordi, il trio composto da Gabriele Centelli, Marco Figliè e Jonathan Nelli, già opening act dei live di band del calibro di Explosions In The Sky, Efterklang, Blonde Redhead, Jon Hopkins, Four Tet, These New Puritans, Gold Panda, Sun Glitters e This Will Destroy You, vedrà questo suo terzo album pubblicato oltre che in Europa, anche in Nord America.
Li abbiamo incontrati per farci raccontare i retroscena del disco, anticipato dai singoli “Waxfall”, “Habit” e “Maple” e che hanno definito il loro epitaffio.
Da “Overflow” sono passati tre anni, cosa hanno portato sotto il profilo musicale?
Sin dall’inizio mettiamo in musica la nostra vita e la nostra storia, quindi sicuramente anche in questo album c’è un racconto di quelli che siamo e che siamo stati in questi ultimi tre anni. Sicuramente è anche il nostro disco più ragionato e moderno che abbiamo fatto fino adesso, perché ci sono un sacco di novità e contaminazioni. Chi ci segue dall’inizio sa che non abbiamo mai fatto la solita musica, ma c’è stata una costante evoluzione che ci ha portati da un post rock elettronico ad arrivare a fare un ibridone di elettronica, shoegaze, ambient, inserendo nella maggior parte dei brani la voce.
Che è la maggiore novità.
A sto giro ci siamo detti: è vero che stiamo facendo un sound molto nuovo e innovativo, però perché non proviamo a sperimentare con la voce? Quindi si, direi che segna un po’ la svolta.
“Social Habits” uguale “Bad Habits”? Qual è questa volta l’obiettivo della vostra terapia sonora?
Sì, questo disco è la continuazione del percorso di autoterapia, che abbiamo iniziato dal 2013 e che speriamo possa coinvolgere anche chi ascolta la nostra musica. “Social Habits” sono sia le buone che le cattive abitudini sociali, e in tutti i brani ripercorre un po’ questo senso di riabilitazione da ciò che ti ha scalfito nel tempo e ti ha reso quello che sei, quindi andare a cercare veramente la felicità anche nelle piccole cose, che ti possono rendere una persona migliore.
A livello esperienziale cosa vi ha portati a sentire il bisogno di fare questo disco?
La vita di tutti i giorni, perché anche se facciamo musica un po’ strana, siamo persone normali, quindi ci puoi mettere qualsiasi cosa, dalla perdita di un affetto, di un parente, di un familiare alla perdita di un amore che svanisce, di un lavoro, cadute da cui uno si deve risollevare.
È sicuramente un disco molto contaminato. In quali mondi musicali dovrebbe immergersi chi vuole approfondirne la genesi?
Come prima cosa dico che sul nostro profilo Spotify abbiamo una playlist che aggiorniamo con costanza e inseriamo tutte le chicche che abbiamo ascoltato nel tempo e che ascoltiamo tuttora. Poi ti potrei dire che abbiamo ascoltato un sacco di musica anni ’90, che è quella da cui veniamo, tutta la scena alternativa, e poi un sacco di elettronica contemporanea, tutto quello che è non clubbing, ma roba d’ascolto, ma anche tutto il movimento trap e hip hop americano, anche per il discorso delle produzioni, specialmente l’uso dei bassi.
In molti hanno parlato di un lavoro che potrebbe fare da volano verso il mercato estero. Voi però avete sconfinato coi live sin dall’inizio, cos’è cambiato?
Beh, questo è un album forse ancora più internazionale dei precedenti, tant’è vero che dieci giorni fa abbiamo fatto i nostri primi show in Russia, in due festival a San Pietroburgo e Mosca ed è stata una grande soddisfazione. Sicuramente dopo l’estate faremo un tour europeo.
Che pubblico avete trovato in Russia?
Inaspettatamente ci siamo accorti che negli anni abbiamo acquisito un sacco di followers là, più che negli altri paesi. Sembra strano, ma è così e le persone che venivano al banchetto per comprare un cd o anche solo per fare due chiacchiere ci dicevano che ci seguivano dal primo album e che vederci live finalmente era stato incredibile, roba che non succede nemmeno da noi in Toscana.
Una collaborazione illustre con l’estero è quella con Ryan McKinnon, gli avete affidato tutta la parte visiva del progetto, dai video alla copertina. Perché avete scelto lui?
Ci siamo conosciuti via web,visto che lui vive a Portland. Ci siamo annusati e piaciuti a vicenda, noi ci siamo innamorati dei suoi lavori fotografici e video e lui della nostra musica. Così gli abbiamo fatto ascoltare le pre-produzioni del nuovo album, lui si è gasato e abbiamo deciso di fare questa collaborazione.
Cosa vi attira del suo modo di lavorare?
Questo disco ha anche un appeal un po’ modaiolo, ma nel senso buono del temine, cioè ha un tocco fashion negli arrangiamenti e nell’immaginario. Lui lavora moto in questo modo, nel senso che lavora con la moda, però anche i suoi scatti, che possono essere un po’ sexy, certamente forti, non sono mai volgari e in questo troviamo un parallelismo con la nostra musica.
Mi ha colpito la copertina del disco: da dove arriva e dove va quel ponte?
Le immagini dei Platonick Dive, tutto il nostro immaginario, così come la musica, sono molto personali, ci puoi vedere quello che vuoi, l’inizio o la fine di qualcosa a seconda di come la vedi.
Ma ti portano sempre da qualche parte.
Esatto. Dove lo decidi tu.
Dei vostri precedenti lavori avete pubblicato un’edizione remix. Anche se è un disco già più elettronico negli arrangiamenti, accadrà qualche cosa di simile pure per “Social Habits”?
Stiamo pensando, ma come dici, è già più presente la parte elettronica rispetto al passato e quindi non vorremmo stravolgere le cose più di tanto, anche perché “Socia Habits” negli anni sarà un po’ l’epitaffio dei Platonick Dive, un disco cardine della nostra storia per ciò che siamo stati e per quello che saremo.