Gli Arctic Monkeys irrompono sul palcoscenico musicale mondiale con il loro sesto disco dal titolo “Tranquility Base Hotel & Casino“, dopo sei anni dal precedente AM, e tutto viene messo in discussione, di nuovo. Perché il gruppo inglese è unico nel suo genere. Una qualsiasi altra band non potrebbe mai permettersi un così grande periodo di inattività e quasi totale silenzio e ritornare con una deflagrazione tale. Loro sì, perché le nuove canzoni colpiscono come un fulmine a ciel sereno con tutto il carico di distruzione delle certezze dei fan degli Arctic Monkeys.
Che strani, e che strano il fenomeno comunicativo che li avvolge. Ancor prima che l’ultimo disco fosse dato alle stampe vengono annunciati con clamoroso ritardo rispetto agli altri musicisti nei bill di tutti i Festival musicali mondiali, spodestando seduta stante pezzi enormi accomodandosi imperialmente sui troni riservati agli headliner. Negli anni gli Arctic si sono guadagnati l’amore incondizionato di orde di fan in Inghilterra e fuori, pubblicando un esordio, “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, che ha venduto come nessuno mai in patria, schiaffeggiando anche il mito Oasis. Nel titolo del loro primo album, tra l’altro, dobbiamo riprendere il concetto imperante per leggere l’ultimo Tranquility base Hotel & Casino, cioè . Ribaltamento totale delle aspettative.
Gli Arctic Monkeys hanno costruito attorno a se un’opinione comune che accentra il loro essere in un’anima rock, punk. Con il progredire degli album anche con una vena psicadelica e oscura, che trasformava il loro garage degli esordi e la loro attitudine leggera e anticonformista, punk, in qualcosa di più oscuro, desertico, sabbathiano, soprattutto dopo il loro incontro artistico con Josh Homme (“Humbug”). Ma ora tutto questo viene demolito, riassestato, in un afflusso artistico che non può che provenire dalla predominanza di un nucleo egocentrico dominante, adombrante. E’ chiaramente Alex Turner, voce e frontman, colui che più di tutti veicola immagine, parole e spirito della band al di fuori del loro centro costitutivo verso il mondo esterno. E mille volte si è già visto discorso simile quando un percorso musicale vira in maniera così netta lontano dalla via maestra, che si tratti di un disco solista che non ha avuto il coraggio di uscire dalla placenta rassicurante del marchio del gruppo che ha un’immagine consolidata, con la sua fanbase e la sua granitica discografia di appoggio. Non è questo il caso, perché il nuovo album degli Arctic Monkeys non è un ripensamento, non è oltraggio, non è contraddizione. E’ maturità, cambiamento. Un percorso che il gruppo non vuole fare né a discapito né in assenza dei suoi fan. E’ solo un’evoluzione di carattere, di gente con molto carattere. La forza di prendere per mano i propri fan e portarli dove si vuole, senza accondiscendenza e facili ammiccamenti. Senza premi fedeltà insomma, a costo di registrare qualche malumore o accuse di tradimento.
Tranquility Base Hotel & Casino è un album che ha nel titolo la chiave di lettura. La cosa che potrebbe adombrare il maggior numero di fan è la quasi totale scomparsa della chitarra. Ma attenzione, è qui l’eccezionalità insita in un gruppo che mantiene la sua attitudine rock pur rallentando i ritmi e pur sfiorendo lo strumento numero uno del genere. Prendiamo due pezzi su tutti, la title track e la prima traccia, “Star Treatment”. Tranquillità nel titolo e nel mood, perché la canzone iniziale è una ballata che molto deve al jazz e suggerisce immagini di stile accentuato, di atmosfere serali con ombre allungate, con vetri di cristalleria tintinnante, quasi onomatopeicamente richiamata dai suoni della canzone. Molto concentrato Turner a vestire un’attitudine da crooner d’altri tempi, uno che con falsetti e caricando di tensione drammatica e sensuale le proprie interpretazioni porta le canzoni e i suoi temi nel profondo dell’animo dell’ascoltatore. Così la title track è una sospensione atmosferica, una chiusura fuori. L’immagine dell’hotel e del casino concorrono alla sensazione musicale di straniamento dalle dinamiche quotidiane che vengono lasciate fuori di una artificiosità voluta dei sentimenti.
Appositamente i ritmi si fermano, frenano le nostre percezioni lasciando che il mondo di tutti i giorni con le sue brutture ci sorpassi e sia costretto ad aspettarci fuori dall’esperienza che ci dona questo album. Episodi bellissimi in chiave retrò si succedono tra l’atmosfera seventy da colonna sonora di noir in “One Point Prespective” alla ballata dark sporca della bellissima “Golden Trunks”.
Tutto ha un sapore di decadenza in queste stanze dell’hotel casino degli Arctic Monkeys, con un suono che si avvicina spesso al funky con Turner che occhieggia a Marvin Gaye, come in “Four Out Of Five” E’ un respiro intensamente vintage di “Science Fiction” e che ha come momento di massima realizzazione “Batphone”, una ballata di piano suadente che avanza furtiva verso le zone più i ombra del nostro cuore. Il piano è l’assoluto protagonista e principale sostituto della chitarra elettrica, schema portante tra l’altro della ballata finale “The Ultracheese”.
Più vicino a una versione decadente dei Beach Boys, questa nuova versione degli Arctic Monkeys si allontana in maniera traumatica dal rock puro espresso dagli esordi e soprattutto dal precedente AM, in un album che dura 40 minuti degli orologi della vita quotidiana, ma che ha il pregio di darti la sensazione di mancare dal tessuto della realtà da molto più tempo, una volta finito. E non è questione di noia, perché quando sei costretto a lasciarlo, già ti manca e chiedi di rientrare.