Stando dalla parte del pubblico, accalcati l’uno contro l’altro con lo sguardo rivolto verso il palco, a volte ci dimentichiamo che su quello stesso palco, ad esibirsi per noi, ci sono degli esseri umani. Abbiamo pagato un biglietto, abbiamo fatto una fila, magari abbiamo affrontato una trasferta: ci aspettiamo che i nostri sforzi vengano ripagati con una performance all’altezza delle aspettative. A volte filtriamo la realtà attraverso il nostro occhio più critico e ci dimentichiamo di essere umani con gli artisti che abbiamo davanti. Mi sento quindi di dire che questa terza giornata di TOdays Festival, quella conclusiva, è la celebrazione dell’essere umano e dell’essere umani.
Si parte dalla location di Parco Peccei dove femminilità, opulenza e lascivia scivolano tra le pieghe della gonna di pelle di Myss Keta sotto il sole cocente che brucia la pelle e fa consumare birrette a go-go. La donna che conta, accompagnata dalle fedelissime ragazze di Porta Venezia, mette in piedi uno show che viaggia sui binari del trash senza vergognarsene, anzi, celebrandolo in tutto il suo splendore.
Lo scenario cambia radicalmente quando ci spostiamo a sPAZIO 211: one man band, fedelissimo autotune alla voce e da solo sul palco nella sua dolcezza, Generic Animal scava nel profondo dei sentimenti più semplici, regalandoci un po’ della sua vulnerabilità e invitandoci a condividere la nostra.
Per salire sul palco ed esibirsi davanti a migliaia di occhi puntati su di sé ci vuole coraggio. Ci vuole ancora più coraggio quando sai che la tua voce potrebbe tradirti: reduce da un’interminabile laringite e dopo l’annullamento della data di Cesenatico, Maria Antonietta non è intenzionata a lasciarsi intimidire, show must go on. Letizia si riprende e aggredisce la scena come Maria Antonietta sa fare, nonostante la tensione palpabile. Tra “Deluderti”, “Pesci”, “Quanto era bello” fa capolino anche “Questa è la mia festa”, d’altronde oggi è il suo compleanno e la sua determinazione è il regalo più bello che potesse farci.
È con la comparsa di Ariel Pink e della sua band in scena che la situazione prende una piega decisamente grottesca. Pancia che straborda dalla cintura dei pantaloni e t-shirt visibilmente macchiata: Ariel Rosenberg se ne frega di sembrare un vecchio zio alcolizzato e chiede a gran voce un altro giro di whiskey. Noi rimaniamo a bocca aperta, lo sguardo fisso sull’eccentrico corista dall’età indecifrabile e gli occhi pesantemente truccati di nero. Bizzarro nelle sue movenze barcollanti e scoordinate: se si parlava di celebrare le sfumature dell’essere umano, la persona di Ariel Pink racchiude tutti i colori del disagio più meraviglioso, quello che è in grado di fare da carburante per una performance sconvolgentemente intensa fatta di reminiscenze seventy-eighties dal sapore squisitamente lo-fi. Ma attenzione, da Pink a punk il passo è breve e più si entra nel vivo del live, più il cantato riverberato si trasforma in grido che scatena noi, pubblico incredulo, in salti e balli forsennati.
A chiudere la scaletta del cantautore americano, una romanticissima “Baby” fa sollevare e sventolare gli accendini del pubblico congedando il live con un quadretto che scioglierebbe il cuore dell’avventore più cinico. Rosenberg ci lascia quindi così, sconvolti, frastornati e innamorati, vittime impotenti dell’Ariel Pink effect.
Se Pink faceva dell’imperfezione il suo cavallo di battaglia, con gli Editors abbiamo a che fare con il mondo studiato e patinato di una band più vicina alle dinamiche commerciali dell’universo musicale. La band britannica sfiora la perfezione e quello che più colpisce è indubbiamente il carisma del frontman Tom Smith e la sua capacità di tenere il palco, seguito a ruota dal resto del gruppo che mantiene lo stesso atteggiamento energico e coinvolgente. Ci si chiede se quello di Smith e soci non sia un copione sapientemente interpretato e ripetuto a menadito ma, qualunque sia la risposta a questo dubbio, la formula funziona e prima di potersene accorgere tutto il parterre sta battendo le mani a tempo, manovrato dal quintetto sul palco. La setlist spazia da brani della nuova release “Violence” come “Hallelujah (So Low)”, “Darkness at the door” e l’omonima titletrack fino a pezzi iconici come “An end has a start”, “The Racing Rats”, “Ocean of Night”. Encore a regola d’arte con la versione acustica di “A Ton of Love” seguita da “Munich” e dall’intramontabile e immancabile “Papillon” che chiude una performance impeccabile.
Come posso descrivervi il sentimento che ogni anno accompagna la fine di TOdays? È una miscela di appagante felicità mista alla nostalgia che porta la fine dell’estate unita all’impellente esigenza di fissare nella propria memoria le istantanee di questi tre giorni passati in una bolla, un microcosmo isolato dalla realtà che ci vedrà tornare al solito tran-tran. Prima di dover tornare alla vita normale vorrei concedermi allora il lusso di sognare ancora un po’, sognare un TOdays ancora più grande e ancora più importante, un festival cittadino in grado di fiancheggiare i colossi europei e di attirare ancora più pubblico internazionale, sognare che tutto questo possa continuare a succedere nella mia città per molti anni ancora. La quarta edizione la chiudo così, con un pugno di sogni nel cassetto: buonanotte TOdays Festival, ci vediamo nel 2019.
Alessia Giazzi, foto di Franco Rodi