Pentagram – Last Rites


I Pentagram sono una mia piccola fissazione da tempo; posseggo tutti i loro album da studio e mi sono ormai convinto che se Bobby Liebling fosse riuscito a condurre la sua creatura con mano più salda e senza pause e scazzi vari, oggi staremmo parlando di una band ascesa nell’olimpo del rock e non solo di un piccolo grande culto sotterraneo. Detto questo, non voglio neppure passare per scriteriato revisionista e aggiungermi a quelli che considerano gli americani al pari del Sabba Nero inglese; c’è indubbiamente una bella differenza fra questi ultimi e i Pentagram, non ultimo il fatto che nel 1971, anno di fondazione del complesso, “Black Sabbath” e “Paranoid” erano già usciti. Tuttavia la storia è stata comunque avara di riconoscimenti per Bobby e compagni, i quali solo ora stanno parzialmente riscuotendo gli interessi in arretrato.
Comunque, che dire di questo disco, il settimo in quarant’anni esatti di carriera (ma bisogna anche tener conto delle pause che il gruppo si è preso). Prima di tutto che viene pubblicato a sette anni di distanza dal precedente “Show’em How”, e che, dopo essersi rifugiati per alcuni anni presso la mai abbastanza lodata Black Widow, i Nostri ora incidono per Metal Blade. Poi, che la formazione è largamente rimaneggiata, avendo come punto focale il solito Liebling alla voce più i rientranti Victor Griffin (chitarra) e Greg Turley (basso) e la novità assoluta rappresentata da Albert Born (batteria). Infine, cosa più importante, che “Last Rites” è il loro miglior lavoro dai tempi di “Sub – Basement” (2001), e se la gioca con le prime storiche emissioni degli anni Ottanta.
La pausa ha fatto davvero bene ai Pentagram, che nelle 12 tracce che compongono l’opera non si risparmiano mai e tentano con tutte le forze di riesumare le antiche vibrazioni della loro giovinezza, riuscendoci quasi sempre. È un disco nel loro classico stile ‘vintage’, e adottando questo termine non si vuole affatto svilirli bensì render loro il giusto omaggio. Il passo è quello di sempre: proto – doom ricco di riverberi, fuzz e wah wah, in grado d’illustrare paesaggi ossianici o di illuminare gli angoli oscuri dell’esistenza, narrati dall’inconfondibile voce di Bobby. Un heavy rock che oggi in pochissimi sanno interpretare con la medesima bravura, in cui i riferimenti principali sono sempre i Black Sabbath e i Blue Cheer, e che in quest’opera si esalta soprattutto nel garage blues dal retrogusto stoner dell’apripista “Treat Me Right”, fra gli episodi migliori del disco e della loro carriera (potrebbe persino ricordare certe cose dei Monster Magnet di “Superjudge”), nell’incedere epico di “Call The Man”, nella semi ballad nostalgica di “Windmills And Chimes” e in altri numeri più devoti al suono lento e cupo di scuola Sabbathiana, vedi le varie “Into The Ground”, “American Dream”, “Death In 1st Person”, etc.
Promossi a pieni voti, e speriamo che questi non siano davvero i loro ultimi riti.
Stefano Masnaghetti

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