“Fidati, entro qualche anno il cantante dei Maneskin inizierà la carriera solista“: la frase detta da una persona che conosco sui Maneskin mi è ronzata in testa sin dal primo momento, e ancora di più a ridosso del concerto al Gran Teatro Geox di Padova dei teenager romani di ieri. Una cosa è certa: il loro successo è fulmineo e pazzesco. Per quanto aiutati alla grande dal megafono televisivo, grazie alla loro permanenza ad X Factor, a memoria solo Marco Mengoni riuscì in un arco di tempo così breve a ricevere dischi d’oro e platino, ma non arrivò a collezionare tre tour sold out in prevendita tra piccoli club e medio-grandi teatri.
Dal punto di vista della partecipazione il loro è stato un grande successo: code agli ingressi, un Gran Teatro Geox pieno come in rarissime occasioni e soprattutto un pubblico eterogeneo che spazia dal ragazzino delle elementari al suo genitore, magari un po’ attempato. Che, al contrario dei concerti degli One Direction, non è un semplice accompagnatore ma un fan anche più scatenato dello stesso figlio. Gli ingredienti del successo dei Maneskin? Sono una band che ha azzeccato almeno un singolo enorme (“Morirò da re” dato in mano ad un’altra band sarebbe considerato anche dai rocker più puri una ventata di freschezza nel genere), che ha capito le carte da giocare e che soprattutto ha ben chiaro cosa vuole il suo pubblico: “Saltare e cantare le nostre canzoni” con un repertorio che mescola il rock più easy con generi come reggaeton (l’iniziale “Are You Ready?”) e una sorta di trap (“Immortale”). Furbi musicalmente ma anche dal punto di vista estetico, con Damiano e Victoria che catalizzano l’attenzione dei più con i numerosi cambi d’abito, compreso il tanto atteso dalle fan segmento a torso nudo del frontman capitolino.
Fin qua sembrerebbe che i Maneskin siano “il futuro del rock italiano” come in molti li stanno dipingendo. No, torniamo alla realtà come in un “Mulholland Drive” qualsiasi: il quartetto romano è di fatto una band che si è trovata dalla sala prove ai grandi spazi senza un’adeguata gavetta. E i difetti emergono nell’ora e mezza di show: in più di un momento la band va fuori tempo, purtroppo non hanno quell’innata dote di tenere il palco dal punto di vista carismatico (l’introduzione con la band a centro palco più che attesa e tensione ha creato noia) e soprattutto hanno ancora dei limiti tecnici non limati con mesi e mesi di prove di preparazione, escluso Ethan autentico metronomo dietro le pelli e unico veramente intaccabile dei quattro dal punto di vista esecutivo.
I pezzi suonati sono tanti, le cover anche (ma meno di quante ci si possa aspettare, essendo il tour del primo disco) ma il tutto è visto in una chiave che possiamo definire “formula Maneskin”; la cosa funziona con i brani propri, ma nelle cover il risultato è altalenante. E se la riedizione di “Let’s Get It Started” e della cover che è il loro primo singolo “Beggin” ci possono stare nella loro visione, negli altri casi si va dal brutto all’imbarazzante, con gli Alt-J che vedono stravolta la loro “Breezeblocks” e con Kings Of Leon e Caparezza che va anche peggio, in delle reinterpretazioni di “Pyro” e “Vengo Dalla Luna” mutilate rispetto alla versione originale.
La domanda che sorge spontanea è quanto durerà il progetto Maneskin prima che Damiano David inizi la sua carriera solista. Il quartetto gira attorno a lui, riducendo a delle comparse degne e meritevoli gli altri tre colleghi. Una band di teenager che ha dalla sua l’entusiasmo e la voglia di sfruttare il momento, che qualunque ragazzo della loro età avrebbe, ma che deve dimostrare ancora di crescere tanto. E l’impressione è che, di fronte ai clamorosi successi ottenuti in così poco tempo, i Maneskin si adagino sugli allori, crollando al primo imprevisto che si chiama disaffezione da parte del proprio pubblico.
Nicola Lucchetta – foto di Pietro Rizzato