Il sold out all’Alcatraz del 16 febbraio scorso è cosa poco sorprendente quando componi un bill del genere, con Bad Wolves, Megadeth e Five Finger Death Punch. Un party metal che richiama un pubblico veramente eterogeneo che viaggia verticalmente all’interno della timeline generazionale del genere.
Se i FFDP e ancor più i Bad Wolves portano fan freschi e di giovane età molti dei presenti, sono qui per glorificare la storia con Dave Mustaine e i suoi inni metal senza tempo. Così entrando nel locale puoi incontrare un sacco di tipologie diverse di fan, dall’attempato che ancora veste i canoni del thrash in tutto e per tutto, con borchie e viso scavato, che con quelle canzoni ha convissuto e che non ha mai veramente abbandonato, anche se la sua vita parallela è fatta di uffici e pratiche e cartellini da timbrare. Ci sono quelli poi che sono andati avanti, li vedi spaesati guardarsi intorno faticando a ricordare perché un tempo amavano quella musica quando i capelli non erano ancora bianchi e le gradazioni delle lenti degli occhiali avevano un numero molto più piccolo. Uno spaesamento che svanisce sulle ali di quella magia tipica della musica rock che ammazza il tempo, in barba alle leggi della fisica e di Einstein, e ti riporta indietro alla velocità della luce o dei riff di Dave, se preferite. Potete trovarvi davanti, invece, ragazzini con la mano rossa dipinta in faccia, e non è perché hanno appena finito di litigare con la fidanzatina/o ma perché è uno dei segni distintivi di Ivan Moody dei FFDP.
I Bad Wolves, con il loro sound effettatissimo e la scomoda faccenda della cover dei Cranberries dimostrano di essere solidi. Costruiti si, ma da gente che sa come erigere fondamenta solide e che funzionano. Perché la chitarra impastata è convincente, i pezzi sono clamorosamente catchy sia nelle parti morbide che in quelle più tirate. “My Messiah”, l’equilibratissimo connubio di melodia e heavy sound di “Killing Me Softly”, la più tirata “I’ll Be There” mettono in risalto la maestria di un frontman capace e con un timbro niente male, Tommy Vext al secolo. Un omone che durante la chiusura affidata alla già citata cover di “Zombie” scende tra il pubblico e che ritornando sul palco è passato di corsa a pochi centimetri da me, che se mi avesse malauguratamente spinto oggi non sarei qui a scrivere questa recensione. Il risultato è una band che, se tralasciamo il fatto che molta della sua notorietà deriva dal tempismo sospetto dell’uscita della cover di “Zombie” praticamente appena dopo la morte di Dolores O’Riordan, suona convincente e piacevole. La prestanza sul palco sopperisce la staticità e piattezza che può risultare all’ascolto del materiale da studio.
Rapido cambio di palco e i fan più chilometrati possono cominciare ad agitarsi, perché il frontman dei Megadeth Dave Mustaine ha tenuto i seguaci di uno dei gruppi compreso tra i Big Four del thrash metal (con Metallica, Slayer e Anthrax) parecchio sulle spine in questi ultimi mesi. Ma lui stesso mette tutti a loro agio con un breve e toccante discorso appena prima di scatenare “Dystopia”. ‘Sentivo qualcosa al collo e quando il dottore mi ha detto che avevo il cancro, sono andato a casa e ho pregato. Ho pensato a voi (indica il pubblico) e alla mia band (indica dietro di sé) e mi sono arrabbiato. Ho deciso di lottare. L’altro giorno lo stesso dottore mi ha detto Dave, sei guarito al 100%‘. Ovazione della folla e libero sfogo a quell’energia dissipatoria che da sempre ha come veicolo il metal per stemperare i disagi e le tensioni quotidiane. La chioma di Dave è sempre meravigliosamente immutata, la barba e le sopraciglia bianche in quella faccia che da sempre è una di quelle che vorrei indossare quando litigo con qualcuno. Se il cantato non è paragonabile a quello di una volta, e lo si è sentito maggiormente in occasione delle melodie più elaborate come in “Trust”, le dita vanno alla velocità della luce con maestria immutata. Veri e propri inni del genere sono rinati su questo palco, dalla famigerata “Symphony of Destruction” a “Hangar 18”, andando a ripescare “Angry Again” dalla colonna sonora del film “Last Action Hero” (soundtrack da riscoprire con pezzi clamorosi tra gli altri di Alice In Chains e AC/DC), una efficacissima “Dread and the Fugitive Mind” e l’apparizione graditissima della mascotte Vic Rattlehead sulle note di “Holy Wars… The Punishment Due”. Eravamo preoccupati che l’era dei Megadeth fosse finita, e invece li abbiamo trovati in piena forma (anche Kiko Loureiro in grande spolvero) e Dave ci ha anche assicurato che una volta uscito il disco nuovo si faranno rivedere dalle nostre parti. Lieto fine di una brutta storia e un capitolo nuovo che sta arrivando.
Per motivi diversi, anche le condizioni di salute di Ivan Moody destavano qualche preoccupazione. Il frontman dei FFDP ha problemi che nel mondo della musica sono una vera e propria piaga, un demone che prima o dopo tutti i professionisti e non devono affrontare. A volte vincendo, altre volte no. E’ quindi con immenso piacere che ci siamo trovati di fronte uno dei migliori Moody di sempre, da quando li vidi per la prima volta sei anni fa sempre all’Alcatraz ma nel palco b. Questa volta no, il palco e il locale è tutto per loro. Anche i fan delle divinità del metal Megadeth sono estasiati dallo spettacolo pirotecnico che questa band sa offrire, una mescolanza di heavy e melodico, di vocalità growl e pulite che superano di gran lunga la stanchezza stereotipata degli Stone Sour, e che di poco non raggiunge il livello degli episodi più commerciali degli Slipknot. Altro elemento di incertezza era portata dalla sembrerebbe temporanea defezione del chitarrista Jason Hook, sostituito da un Andy James un po’ teso e statico, e addirittura Moody lo spinge a sbagliare caricandolo di responsabilità nell’arpeggio acustico dedicato alla performance di “The Tragic Truth”, poi seguita da “Wrong Side Of Heaven”. Scherzoso ma in maniera paterna lo spinge delicatamente verso il pubblico e al suo posto nella band. Al netto di un Chris Kael mastodontico e incontenibile al basso, il vero protagonista della serata è Ivan. Frontman con una vocalità senza senso. Non si risparmia ed è potente nelle parte più pesanti, come “Burn It Down”, in “Lift Me Up” usata come apertura, nella bellissima “Wash It All Away”.
Quando c’è da mettere una buona dose di ironia al contesto è impareggiabile, come in “Sham Pain” o “Jekyll and Hyde”, quando c’è da dare espressività a pezzi più melodici rimane unico, come nel caso di “Battle Born”, della cover di Kenny Wayne Sheperd in rotazione pressante nelle radio “Blue on Black” o “Never Enough”. Gestualità e mimica ai massimi livelli di intrattenimento, vocalità potente e qualitativamente stupenda, che sa dare drammaticità immensa anche a canzoni clamorose come “The Bleeding”. La band è un vero calderone di emozioni e divertimento, con un cantante che è essenziale preservare in salute fisica e mentale. All’orizzonte un nuovo album e si spera tanti altri bei live per dei bis che difficilmente i presenti alla serata dell’Alcatraz si faranno sfuggire.