Che “Helplessness Blues” sia arrivato dopo tre lunghi anni dall’uscita del folgorante esordio “Fleet Foxes”, non è di sicuro un caso. Si sa, le aspettative che circondano la seconda prova di una band, quando questa passa direttamente dal sottobosco agli altari dell’indie rock di tutto il mondo, sono sempre altissime: qualche cosa, in questo senso, potrebbero raccontarcela gli Arcade Fire, che all’uscita di “Neon Bible” erano stati investiti da un vero serraglio di critiche facilone.
Normale quindi che Robin Peckwood si sia trovato in difficoltà nel cercare di “bissare il successo” del primo Fleet Foxes. Aggiungiamoci poi un tour con Joanna Newsom che, se da una parte lo ha aiutato a raccogliere delle idee più orecchiabili per i nuovi pezzi (era in giro da solista, da qui la necessità di strutture melodiche più forti per giustificare l’esilità degli arrangiamenti), dall’altra sicuramente ha dilatato i tempi di produzione di “Helplessness Blues”, ed ecco che le motivazioni di questi tre anni di attesa ci sono già tutte.
La risposta alle tensioni, alla voglia di ricreare una piccola magia, alle frustrazioni del chiedere sempre di più a sé stessi, sta tutta nel titolo: “blues dell’impotenza”. Parole forti: come dice lo stesso Peckwood, i testi sono tutti incentrati sulla “difficoltà di essere ciò che si vuole, e sul fatto che spesso siamo proprio noi il maggiore impedimento a noi stessi”. A partire dalla title track, saggio breve sul libero arbitrio e poi nell’introduttiva “Montezuma”, buia nell’incertezza del futuro, l’atmosfera che si respira è quella di un falò notturno per evocare gli spiriti, un rito di magia bianca oscuro solo nelle forme, non negli intenti, del quale “The Shrine/An Argument” è il fulcro, il catalizzatore, su tutti i livelli.
Le canzoni, poi, al di là dei discorsi sul concept, ci sono tutte e stanno tutte in piedi da sole: rispetto all’esordio c’è un po’ più di attenzione alla vera e propria forma-canzone che, pur mantenendo la cura ossessiva delle voci, lascia da parte le ispirazioni corali, oltre a svariati inserti di impronta coraggiosamente etnica (un violino mediterraneo in “Bedouin Dress” e il magma improvviso di fiati sul finale di “The Shrine/An Argument”) che aggiungono atmosfera, nel caso l’aria non fosse già abbastanza satura.
Di sicuro questo album conferma delle capacità che già erano ben chiare, ma vive, e questa è la cosa più bella, di un immaginario completamente diverso rispetto al suo predecessore, dimostrando un’evoluzione che non può che essere positiva, così come sarebbe stato assolutamente negativo il tentativo di ripetere a copia carbone i modi degli esordi.
Francesca Stella Riva
Si chiama Robin Pecknold, non Peckwood