Warren Haynes è uno dei più grandi musicisti rock contemporanei. Dati i tempi che corrono probabilmente non diventerà mai una leggenda, ma esser divenuto una pedina fondamentale dei ‘nuovi’ Allman Brothers Band e aver fondato insieme a Matt Abts e al compianto Allen Woody i Gov’t Mule basterebbe già ad innalzarlo al vertice della piramide musicale; e a ragione, dal momento che di chitarristi – cantati come lui oggi ce ne sono davvero pochissimi (nessuno?) in circolazione.
Parliamo del disco. “Man In Motion” è il suo primo solista dai tempi di “Tales Of Ordinary Madness” (1993). Un secolo fa, insomma. Secondo le sue stesse parole, si tratta di un omaggio al rhythm and blues, al soul e, in generale, a tutta la grande musica nera con la quale è cresciuto. Dalla Stax alla Motown passando per James Brown, Ray Charles, il blues di Chicago e quello più rurale del Delta del Mississipi. Non a caso molti dei musicisti coinvolti in questo progetto sono di New Orleans e dintorni. Esaurite le premesse, è bello constatare che l’omaggio è riuscito sotto tutti i punti di vista; anzi, si è persino andati oltre le più rosee previsioni.
L’album è già uscito da qualche settimana. Come succede spesso alle opere di qualità, pochi se ne sono accorti e la pubblicità è stata quasi inesistente. Eppure, per chi è appassionato della grande musica americana, “Man In Motion” contende a “Low Country Blues” di Gregg Allman lo scettro di disco dell’anno. Dieci brani per 66 minuti di durata, nessun cedimento e nessun momento di noia, assenza totale di filler e un feeling complessivo di quelli che si ricordano per anni e anni. Merito di Warren, della sua chitarra impareggiabile e, soprattutto in questo caso, della sua voce, mai così in primo piano e decisiva per le sorti delle sue composizioni. Merito anche di una band che fa faville dalla prima all’ultima nota, compresa una sezione fiati che a volte è persino in grado di spingersi ai limiti del jazz vero e proprio (cfr. l’apertura di “A Friend To You“). Haynes e compagni elargiscono perle di saggezza e sogni di tramonti infuocati a sud della Route 66, la loro alchimia è talmente perfetta che riesce a mostrare all’ascoltatore l’ideale punto d’intersezione fra rock, blues, rhythm and blues, soul, funk e southern, fra la jam session funambolica e la ballata trasognata, fra i turbinosi assoli di chitarra e le dorature di un miracoloso organo hammond.
Impossibile isolare singoli episodi, a causa dell’altissima qualità del lavoro nel suo complesso. Tuttavia è di rigore citare quello che è il capolavoro assoluto di “Man In Motion”, ossia l’epica e solenne ballad “Your Wildest Dreams“: gli iniziali accordi hendrixiani (c’è una lievissima somiglianza con “Little Wing“) preludono a un continuo crescendo emotivo che chiama in causa il meglio di mostri sacri quali Lynyrd Skynyrd, Marshall Tucker Band, Led Zeppelin, etc. mentre gli assoli di sassofono di Ron Holloway donano un tocco springsteeniano alla canzone, surriscaldandosi sempre più sino a lambire il free jazz.
Indispensabile.
Stefano Masnaghetti