Lou Reed è uno stronzo, chi conosce almeno un po’ il personaggio lo sa bene. Lou Reed, però, è anche un genio e ogni sua trasformazione, anche quelle più “dolorose”, gli ha sempre dato ragione; il tempo, inoltre, è sempre stato un suo grande alleato. Quando uscì “Berlin”, la critica lo definì la scoreggia di un tossico, stessa cosa, anzi peggio, all’uscita di “Metal Machine Music”: tutti (tranne Lester Bangs) gli diedero del bruciato per sempre. Chissà come, però, si scopre che a distanza di decenni ogni suo esperimento ha fatto scuola. Il nuovo tour dell’ex Velvet Underground presenta una serie di brani più o meno noti della sua discografia, totalmente riarrangiati dalla giovanissima band che lo accompagna ultimamente: un po’ come per l’ultimo Dylan, spesso è difficile capire immediatamente il pezzo originale, ma alla fine si lascia il parterre convinti di aver assistito ad uno spettacolo difficile da scordare.
Lou non parla mai al pubblico di Pistoia, né apre mai la bocca se non per rimproverare qualche componente della band, che però sembra felice di ricevere le sua “attenzioni”, ma regala emozioni che solo tre/quattro artisti al mondo sono in grado di dare. L’attacco con “Who Loves The Sun” è da brividi e il fatto che dopo tre pezzi sia già passata più di mezz’ora rende bene l’idea del mood della serata, che vedrà la presenza nella scaletta di un numero notevolissimo di brani dei Velvet, alcuni davvero inaspettati. Se pezzi come “Sunday Morning” e “Femme Fatale” erano auspicabili, ma non scontati, difficile era invece aspettarsi una chiusura da pelle d’oca sulle note di “Pale Blue Eyes” e un inizio con la già citata “Who Loves The Sun”. Tutti segni del fatto che Lou è probabilmente riuscito a sconfiggere un po’ dei demoni legati a quel periodo della sua esistenza.
A stupire e in qualche caso a deludere un po’ i fan dell’ultima ora, ci hanno pensato invece i brani del repertorio solista: niente super hit, solo brani particolari pescati un po’ a caso. Abbiamo così avuto la possibilità di ascoltare brani come la sottovalutata “The Bells”, la splendida “Ecstasy” (dall’album migliore degli ultimi 15 anni del nostro) e “Charley’s Girl” da “Coney Island Baby”. L’oscar della serata va però alla straziante versione di “Mother” di John Lennon, che pur mantenendosi fedele all’originale viene capita da pochi presenti. Viva l’Italia.
Luca Garrò