Seconda data del tour italiano del progetto “Alone I Play” nella piazza dell’abbazia di Sesto al Reghena, piccolissimo paese non molto distante da Portogruaro (Venezia). Posti a sedere, una location affascinante per uno show semiacustico insolito per un musicista come Jonathan Davis. Al suo seguito, una band di musicisti di alta professionalità, nella quale son presenti persone che hanno collaborato (Michael Jochum, batteria, e Zac Baird, tastiere) o collaborano tuttora (Shane Gibson, chitarra) con i Korn.
Ad aprire la serata due membri della supporting band, Miles Mosley (contrabbasso) e Shenkar (violino). Il primo suonerà una scaletta brevissima ma intensa, composta da due soli pezzi, “Spitfire” dei Prodigy e “Voodoo child” di Jimi Hendrix: delle versioni molto più funk e sanguigne, con un groove che i Red Hot Chili Peppers odierni pagherebbero oro per avere. Il breve live di Mosley, a dirla tutta, valeva da solo il biglietto d’ingresso.
Ben più spazio è stato dato all’artista indiano Shenkar: una mezz’ora nella quale ha potuto presentare brani tratti da “Open the door”, il dodicesimo album di una carriera ricca di collaborazioni lunga più di trent’anni. Un set molto sofisticato e coraggioso, che potrebbe essere definibile etno-pop, ma non adatto per la platea accorsa a Sesto al Reghena.
Alle 22 sale sul palco Jonathan Davis. Ora, che il suo ego fosse enorme come il suo talento lo sanno tutti; che se la tiri un casino anche. Ma nessuno si sarebbe aspettato un atteggiamento da rockstar come il suo. Questa la sua serata: hotel fino alle 21.40 (fine del set di Shenkar), entrata trionfale a bordo di una Nissan Qashqai, cambio d’abito veloce, 75 minuti di concerto e ritorno in hotel. Parlando del concerto: scaletta più breve rispetto al tour statunitense, con il taglio di molte reinterpretazioni di canzoni dei Korn ma, soprattutto, le tanto attese e sbandierate cover di brani preferiti da Davis. Ma non pensate neanche lontanamente che questo concerto sia stato deludente: per i presenti è stata una di quelle esperienze che, emotivamente, si porteranno dietro per molti anni. Non capita tutti i giorni di sentire brani dimenticati dei Korn rivisti (o stravolti, escludendo il finale praticamente identico, nel caso di “Falling away from me”) in chiave semiacustica, spaziando dal funk al jazz, e brani della colonna sonora di “Queen of the Damned”, il tutto presentato da musicisti preparatissimi.
Ma parliamo della primadonna della serata, Jonathan Davis. Il cantante di Bakersfield, che canterà quasi tutto il concerto seduto sul suo trono personale, si dimostra un artista di gran talento: nessun calo di voce e “aiuto dalla regia” (le famose bombolette di ossigeno, critica spesso sollevata nei suoi confronti). Uno show perfetto, il suo, nel quale il “suo” cantato si sposa alla perfezione anche con questi insoliti riarrangiamenti. A dare al tutto un tocco di classe, il fatto che tutti i componenti indossavano vestiti particolarmente eleganti (anche se le Nike fosforescenti di Davis si son fatte notare subito).
Questo concerto di Sesto al Reghena, forse anche per il fatto che il pubblico è stato seduto per il grosso della durata, non sarà stato “vissuto” come quello del giorno prima a Cortemaggiore (ma il Fillmore non ha il fascino di una piazza, giusto per fare i campanilisti, ndr), ma da qui a parlare di fallimento, o concerto piatto ce ne passa: per quanto mi riguarda, uno dei migliori degli ultimi anni, superiore anche delle date italiane di supporto ad “Untitled” del febbraio scorso. E la conferma che, dopo 15 anni come psicopatico frontman dei Korn, Davis si è anche un po’ rotto le balle e vuole ritagliarsi lo spazio per un progetto solista che si preannuncia, già da ora, come una delle possibili bombe dei prossimi mesi.
Setlist: System, Last legal drug, 4U, Hey daddy, Forsaken, Dirty, Slept so long, Kick the P.A, Not meant for me, Careless, Redeemer, Got the life, Falling away from me.
N.L.