Li avevamo lasciati nel 2008 con la morte nel cuore perché, con la pubblicazione del sesto lavoro in studio, “The Illusion Of Progress“, avevamo la quasi totale certezza che fossero destinati a cadere nell’oblio. Grazie al cielo ci sbagliavamo.
E’ uscito da pochi giorni l’album omonimo degli Staind, band capitanata da Aaron Lewis. Ascoltandolo si ha la dimostrazione che il nu metal non è un genere morto, al contrario ha solo bisogno di artisti che lo sappiano utilizzare al meglio. Perché se altri colleghi di sound (un nome su tutti, Linkin Park) hanno voluto sperimentare e prendere altre strade, Lewis e soci, dopo un passo falso, sono tornati realmente alle loro origini. Non avrebbero potuto farlo in modo migliore.
Il disco si apre con “Eyes Wide Open”, un pezzo rock potente e trascinante che nel ritornello ricorda vagamente il tiro di “Mudshovel”, una delle hit più conosciute. La voce del frontman è più forte e agressiva che mai, con quella venatura malinconica che la contraddistingue da sempre. “Not Again” è il primo estratto e rappresenta perfettamente la formazione di Springfield, che alterna momenti melodici ad altri decisamente più spinti. Ma tra i pezzi più carichi “Now” è sicuramente quello più radiofonico, con una melodia orecchiabilissima, riff che la fanno da padrona e un ritornello che si insidia così tanto nella mente che si è in grado di cantarlo dopo due/tre volte. “Wannabe” è invece la canzone meno convincente di “Staind”, non per l’arrangiamento ma per la parte vocale. Ci troviamo di fronte ad un featuring insolito, ossia Snoop Dogg, e le doti vocali di Aaron non vengono messe in risalto come dovrebbero. C’è da dire che nonostante tutto non è una traccia da buttare, probabilmente è solo un po’ più difficile da assimilare. La vetta si raggiunge con la conclusiva “Something to Remind You”. Niente batteria, niente basso, solo Aaron Lewis e la sua chitarra. E’ il lento per eccellenza dell’album e ascoltando attentamente le lyrics è impossibile trattenere le lacrime, sia per la grandissima capacità vocale nell’esprimere dolore sia per il significato che ognuno può attribuire alla canzone stessa. C’è chi potrà interpretarla come una lettera d’addio o chi ci potrà vedere le ultime parole sul letto di morte pronunciate da un caro che sta per morire.
Qualità, non quantità. Sembra esser stato questo il motto degli Staind per realizzare un disco relativamente breve, solo 10 brani, ma tecnicamente perfetto; e fortunatamente l’abbandono del batterista Jon Wysocki non ha influito in nessun modo. Gli Staind sono ufficialmente tornati. Caldamente consigliato ai fan irriducibili e agli amanti del nu metal.
Claudia Falzone