Sarà il fatto che, con le loro maschere, attirano l’attenzione e affascinano flotte di ragazzini; sarà il fatto che son più di tre anni che non passano in Italia (escludendo il side project più noto, gli Stone Sour); sarà il fatto che la loro carriera è un vero e proprio manuale di marketing internazionale plasmato in band. Ma una cosa è certa, gli Slipknot sono riusciti a fare quello che dei mostri sacri dell’heavy metal, come gli Slayer, non sono riusciti pochi giorni prima: riempire il Palasharp, e fare soldout con un mese e mezzo di anticipo. Inoltre, è impressionante vedere un Palasharp pieno per una band che, di fatto, suona metallo pesante: con gli Iron Maiden e i Metallica un’affluenza da sold out è comprensibile, con gli Slipknot, pensando a quello che fanno, no.
La serata per una piccola fetta del pubblico inizia già dalle otto di mattina; per i Children of Bodom (e per il grosso dei presenti) alle 19; per il sottoscritto, a causa di concomitanza con alcune interviste (a Machine Head e Children of Bodom, online nei prossimi giorni, ndr), alle 19.20. Conseguenza: mezzo set della band finlandese perso. In ogni caso, l’impressione che la band voglia batter cassa, sfruttando il periodo “death melodico spacciato per metalcore”, è forte: ineccepibile la professionalità e la perizia tecnica della band, un po’ meno la coerenza. E, tra parentesi, pare che i primi due dischi li abbiano dimenticati.
Scendono i “ragazzini” (insomma, Laiho e Janne Wirman ormai sono ad un passo dai trent’anni) e salgono sul palco i maestri. I Machine Head, nei 50 minuti a disposizione riescono a concentrare tutto: la rabbia degli esordi (“Ten Ton Hammer” e la conclusiva “Davidian”), la ricercatezza a livello di arrangiamenti (i tre estratti da “The Blackening”: “Clenching the Fists of Dissent”, “Aesthetics of Hate” e “Halo”) e si tolgono lo sfizio di far commuovere i presenti, dedicando la già citata “Halo” a Phil Demmel e al periodo nero che ha passato lo scorso anno, dal malore durante la data milanese del Black Crusade Tour, passando alla morte del padre avvenuta poco dopo. Con tutto il rispetto per gli altri tre componenti, sugli scudi un Rob Flynn in formissima, ripreso totalmente dalla bronchite che costrinse la band a cancellare la data danese di alcuni giorni prima. I migliori, le carte in regola per una nomination come miglior show di questo 2008 in ambito metallico, ma non servivano conferme.
Lo show degli Slipknot, a priori, è stato un evento: uno spettacolo come quello loro, dalle coreografie e la bravura strumentale dei nove (escludendo il fatto che Corey Taylor, a distanza di anni, utilizzi ancora il primo brano per “ingranare”) allo spettacolo di luci, è a livelli infinitamente superiori rispetto alla media del genere, e può competere tranquillamente con quello di band ben più blasonate e di generi più accessibili. Anche la scaletta, tolte alcune esclusioni discutibili dal passato (escludendo la clamorosa mancanza di “Wait and Bleed”, mancherebbero anche “Left Behind” e “Pulse of the Maggots, inno dei fan della band dello Iowa) e da “All hope is gone” (dove son finite “Gematria”, “Sulfur” e “Gehenna”?), è soddisfacente: ormai sono arrivati al quarto disco, e le esclusioni sono frutto di una discografia ormai ampia. Tanti estratti dal primo disco (praticamente mezza scaletta), tra cui due perle inaspettate come “Get this”, uscita come bonus track del disco omonimo, “Prosthetics” e “Only one”, accolte freddamente dal pubblico, che ha preferito lasciare i boati per brani come “Duality” e il nuovo singolo “Dead Memories”, entrambi cantati a squarciagola da tutti.
Quel qualcosa che manca agli Slipknot per diventare LA live band definitiva è il carisma per tutti i componenti della band, escludendo Joey Jordison e Corey Taylor (insieme a Phil Anselmo, il più grande animale da palco uscito dal metallo da vent’anni a questa parte): in poche parole, non basta far tanto casino per attirare la gente, dopo un po’ annoi. Di fatto, il frontman riesce a sopperire a questa (grossa) lacuna degli Slipknot con il suo enorme carattere, prendendo letteralmente in pugno i numerosi presenti, facendoli cantare e mandandoli in delirio.
(sic) chiude il concerto del carrozzone Slipknot, dopo novanta minuti tiratissimi e con pochissime pause (la più lunga, il paio di minuti tra “Only one” e “People=shit”). L’ultimo disco, il fortunato “All hope is gone”, ci ha portato una band in grande spolvero, con un gran seguito e pronta a ricoprire il ruolo di band “riempiarene” nei prossimi anni. Sarà un azzardo, ma ce li troveremo come headliner di qualche festival europeo la prossima estate? Ai posteri l’ardua sentenza, ma non escludiamo questa cosa a priori.
Setlist Machine Head: Clenching The Fists Of Dissent, Imperium, Ten Ton Hammer, Aesthetics of Hate, Old, Halo, Davidian
Setlist Slipknot: Intro (Ac/Dc: For Those About to Rock), 515, Surfacing, The Blister Exists, Get This, Before I Forget, Liberate, Disasterpiece, Dead Memories, Psychosocial, The Heretic Anthem, Prosthetics, Spit It Out, Duality, Only One, People=Shit, (sic)
Nicola Lucchetta