Tornano a Milano le icone del dark sound, a quasi tre anni dalla loro ultima calata sul suolo italico. Nel 2006 non ero presente, ma chi c’era disse di esser rimasto parzialmente deluso da un concerto troppo breve e da una prestazione eccessivamente fredda.
Difetto, quest’ultimo, che si è ripetuto anche in quest’occasione. Ma andiamo con ordine.
Ad aprire lo show, in un Alcatraz già piuttosto stipato (ma si usa il palco piccolo), ci pensano gli Ulterior, quartetto inglese di belle speranze che si dimostra un supporto più che valido alle star della serata. Perfettamente in linea con l’umore dello show, la band si avvale di batteria elettronica e tastiere, suona musica nervosa e cupa, di chiara derivazione post – punk e dark – wave. Evidente l’influenza esercitata dai Sisters Of Mercy stessi, anche se il gruppo si distacca da questi per una propensione verso atmosfere più agitate e taglienti. Insomma, più punk nell’accezione primaria della parola. In ogni caso un buon gruppo, con un’ottima tenuta del palco, nonostante un suono totalmente derivativo.
Ormai della line – up originaria dei Sisters è rimasto solo Andrew Eldritch. Oltre ovviamente a Doktor Avalanche, la fedele drum machine. Se però quest’ultima rimane inossidabile anche con il passare degli anni, lo stesso non si può dire di Eldritch: il suo profondo tono baritonale, vero e proprio valore aggiunto delle canzoni di SOM, è quasi sparito. La fatica del leader nel tener testa alle chitarre di May e Christo è palpabile, e la cattiva forma dietro il microfono emerge in tutta la sua gravità in un pezzo storico come “Marian”, della quale non riesce a rendere la tenebrosità delle linee vocali, da sempre punto di forza del brano in questione. Anche i suoni non sono stati all’altezza dell’evento, con il volume delle chitarre troppo alto, che ha finito per soffocare le parti elettroniche per quasi tutta la durata del concerto. A questo si può aggiungere l’eccessiva cortina fumogena entro la quale erano immersi i tre – dicono sia una loro caratteristica, ma a me non convince affatto – e soprattutto la troppa supponenza nei confronti del pubblico: d’accordo che il personaggio del tenebroso scostante e misantropo fa forse parte della loro immagine, e dell’immagine di tutto un genere, tuttavia Andrew e compagni esagerano nel rifiutare qualsiasi interazione, seppur minima, con i loro fan. Poi è facile salvarsi in corner con un’ottima scaletta, lunga e rappresentativa di tutto quel che di meglio la band ha composto nell’arco di una carriera ormai quasi tentennale (unica eccezione rilevante, la mancanza di “Kiss The Carpet”). Se poi a chiusura dell’esibizione piazzi roba come “Lucretia, My Reflection” e il cavallo di battaglia “Temple Of Love”, allora gli applausi sono assicurati. Ma rimane la sensazione di aver assistito a un concerto poco vissuto, suonato con svogliatezza, al minimo sindacale. I darkettoni di più stretta osservanza hanno comunque apprezzato, mentre a me e ad altri è rimasto l’amaro in bocca.
Setlist: Crash And Burn – Ribbons – Long Train/Detonation Boulevard – Alice – Flood I – Floorshow – Anaconda – Marian – Susanne – Arms – Dominion/Mother Russia – Summer – First And Last And Always – This Corrosion – Flood II – Something Fast – Vision Thing – Lucretia, My Reflection – Top Nite Out – Temple Of Love
Stefano Masnaghetti