Florence And The Machine Ceremonials

Sono passati all’incirca due anni dall’uscita del pluripremiato Lungs, album che segnò l’entrata definitiva nella scena musicale di Florence Welch, la venticinquenne cantante di Camberwell, accompagnata dal nutrito gruppo di musicisti che vanno a comporre la “macchina” sonora dalla quale si elevano le sue liriche sferzanti. Due anni che lasciano il segno: il segno di una netta maturazione.

Sotto la sapiente guida di Paul Epworth (produttore, tra gli altri, di Adele, Bloc Party e Kate Nash – tanto per dire) i Florence and the Machine tornano con il loro secondo album di studio: Ceremonials. Si lasciano da parte gli aspetti più ridanciani e le ritmiche catching di brani come You’ve got the love, in favore di atmosfere più cupe e di una maggiore sperimentazione sia dal punto di vista delle componenti musicali (suggestiva l’introduzione con percussioni tribali nella maestosa Heartlines), sia per quanto riguarda l’approccio più idiosincratico della voce: mai stato un timbro di plastica il suo, ma in questo disco Florence riesce a liberarsi da ogni minima pellicola residua e mostra una voce variopinta, algida a tratti e poi coinvolgente, indiscutibilmente elegante, capace nei virtuosismi e coscienziosa nella misura in cui usarli. Brani come Never let me go ne sono la più evidente (e soddisfacente) dimostrazione. Come è giusto aspettarsi da un lavoro del genere, sono presenti diverse contaminazioni di genere, dal dark-soul di What the water gave me alla “suburbanaBreaking down, che deve ben più di qualche eco alla produzione degli Arcade Fire.

Si arriva infine al punto. Questa macchina musicale ha più volte dimostrato le sue capacità ed il talento che serve per sfornare certi successi. E’ bello quando si riesce poi a condensare tutto il lavoro in un brano solo, in qualche manciata di minuti. Non succede sempre – ma è bello quando accade. È questo il caso: Shake it out, scelto peraltro (e ci mancherebbe) come primo estratto dall’album, è la perfetta sintesi di quanto detto fin ora. Un pezzo in cui la voce si carica di una forza empatica ragguardevole, che lo fa splendere di luce propria in mezzo alle tinte fosche del disco, accompagnata da una parte musicale in continua progressione. L’atmosfera cupa qui diventa delle più toccanti, ma è un’oscurità che non fa paura quella della Welsh, perché sa di rivincita. Come dice lei stessa, è solo questione di tempo: It’s always darkest before the dawn.

Andrea Suverato

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