Inneres Auge – Un’Altra Vita – Inverno – No Time No Space – L’Incantesimo – Haiku – La Quiete Dopo Un Addio – Stage Door – Tibet – ‘U Cuntu
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In realtà non si tratta di un vero e proprio nuovo album di Battiato. Piuttosto di una specie di compilation nella quale l’artista si cimenta in differenti versioni di suoi brani o ‘minori’ oppure dimenticati con il passare degli anni, più tre inediti e una cover di De Andrè a far da suggello al tutto.
“Inneres Auge” (occhio interiore in tedesco) è una delle nuove canzoni, scelta come singolo per il disco. Musicalmente, in tutta franchezza, non è una delle sue opere migliori: il maestro siciliano ci ha abituati a ben altro. Si tratta di un ibrido fra orchestrazioni sinfoniche e battiti techno, qualcosa che potrebbe inserirsi fra il Battiato dei primi anni Ottanta e quello elettronico degli ultimi lavori, “Gommalacca” su tutti. A balzare agli occhi è, invece, il testo: raramente ci ricordiamo il Nostro così arrabbiato e furente verso la rovina in cui sta franando l’Italia. Come precedente si potrebbe indicare “Povera Patria”, ma questa volta gli obiettivi sono ancora più chiari, e vengono colpiti con durezza indicibile (per il suo stile): mancano solo nomi e cognomi, per il resto c’è tutto. Solo a fine pezzo si riconosce quella che è la sua tipica cifra lirica: l’invito alla meditazione, alla lettura ed all’ascolto dei grandi del passato, e a perseguire la ‘linea verticale’, quella che porta allo spirito. In realtà, da un autore della sua raffinatezza e della sua cultura, si potrebbe chiedere un definitivo abbandono del dualismo fra spirito e materia, ma, in ogni caso, il fulcro del brano è nell’amarissima presa di posizione civile e ‘politica’.
Il resto del cd offre una breve carrellata del Franco più nascosto: niente “Cuccurucucu”, “Voglio Vederti Danzare” o “La Cura”, per intenderci. Al loro posto, re – work di b side (“L’Incantesimo” e “Stage Door”) e di canzoni ripescate dal passato, prossimo e remoto. Bella la nuova riproposizione di “Un’Altra Vita”, meno sintetica e più classica; non del tutto riuscita, invece, quella di “No Time No Space”, più ritmica e meno aliena. Non convince pienamente neppure “Tibet”, almeno per quanto concerne il lato strettamente musicale. Il meglio di “Inneres Auge (il tutto è più della somma delle sue parti)” è rintracciabile in due piccole magie: in “Inverno”, intensa e sentita quasi quanto l’originale di Faber, e soprattutto nel terzo ed ultimo inedito, “’U Cuntu”, che chiude l’album nella maniera migliore. Infatti, non solo il compositore torna a cantare in siciliano, cosa che non faceva dai tempi di “Fisiognomica” (1988) con “Veni L’Autunnu”, ma offre una delle sue prove più malinconiche, oscure e disperate di sempre. Un organo liturgico e una tromba sconfortata accompagnano gravi l’elegia funebre intonata da Battiato: “’U sennu stamu piddennu ‘u sennu/Ti ni stai accuggennu ‘unni stamu jennu a finiri/Cu ‘stu munnu ca sta ‘mpazzennu – Il senno stiamo perdendo il senno/Ti stai accorgendo dove stiamo andando a finire?/Con questo mondo che sta impazzendo”. E ancora: “Nan sacciu chi fu a jeri visti ‘a motti/Addummisciuta ‘nda ‘na gnuni/Nan si vosi arrusbigghiari – Non so che successe, ma ieri vidi la morte/Addormentata in un angolo/Non si volle svegliare”. Non siamo molto distanti da alcuni testi di Agghiastru. Dal pessimismo ‘circoscritto’ della title – track al pessimismo ‘cosmico’ di “’U Cuntu”, forse, il passaggio non era poi così difficile da fare. In ogni caso è questo il vero pezzo forte della collezione.
Difficile giudicare un’emissione del genere. Probabilmente si tratta di un antipasto prima di qualcosa di più sostanzioso. Sicuramente pregevole in alcuni punti, ma da consigliare esclusivamente ai più fervidi seguaci dell’autore. Certo che l’ultimo brano vale da solo il prezzo del biglietto.
Stefano Masnaghetti