Jamie Stewart – La Casa 139, Milano 14 maggio 2009

 

Jamie Stewart è solo, sul palco. Una semicirconferenza di effetti per chitarra disegnata intorno ai piedi e due microfoni, uno per la loop station e uno per la sua voce, delimitano il territorio. E’  affascinante vederlo supplire alla mancanza dei musicisti con richiami per uccelli e fischietti, o vedere Caralee McElroy rimpiazzata da uno stilofono, quel sintetizzatore “da tasca” che si suona con una pennina.

Il concerto che Jamie ci regala è di un’intensità veramente rara: è una presenza statuaria, quella in controluce sul palco. Urla, con la voce rotta, o canta in un sussurro della fragilità della vita e dell’autostima, dell’amore quello che devasta, stravolge.
Stravolti sono anche i pezzi degli XiuXiu: Jamie li rovescia, li maltratta. prende “I Luv The Valley, Oh!” e la sommerge con la distorsione della chitarra, canta “Fabulous Muscles” come se fosse una canzoncina, ci tiene in pugno somministrandoci i pezzi nuovi (“Dear God, I Hate Myself” sicuramente la più toccante) col contagocce.

Stupisce come sempre il contrasto fra la lucidità con cui Jamie, nei suoi testi, si fa carico delle ansie e delle paure di una certa società di oggi (dall’AIDS alle guerre di Bush, all’incapacità di amare) e il coinvolgimento emotivo con cui poi le affronta sul palco, dove diventano questioni personali. Il congedo è affidato ad una sghemba “Ceremony”, quasi parodizzata dal suono dello stilofono e dai richiami per uccelli, che ci accompagna alla fine di uno spettacolo tortuoso e magari a tratti incomprensibile per molti, ma sicuramente intenso ed ispirato, un bellissimo regalo da parte di uno degli artisti più coraggiosi e visionari dei nostri tempi.

Francesca Stella Riva

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