Colapesce Un Meraviglioso Declino

La leggenda di Colapesce narra di un ragazzo siciliano, di nome Nicola (Cola) al quale, in virtù delle incredibili doti di nuotatore, venne affibbiato quel particolare nome anfibio.
Ora, la fonte più accreditata vuole che il ragazzo, essendosi immerso nelle profondità marine, vide che uno dei tre pilastri sui quali poggiava tutta la Sicilia era cedevole e pieno di crepe, e volendo salvare la terra natia si sostituì ad esso. Un moderno Atlantide.
Ma dello stesso parere non è Lorenzo Urciullo che, preso in prestito dalla leggenda il nome d’arte, ne tramanda un’altra versione: quella del conterraneo (e contemporaneo) Angelo Orlando Meloni, secondo la quale Colapesce si è stancato dell’ingiustizia del mondo “di sopra”. Quel ragazzo ha semplicemente trovato un posto migliore dove stare, e non ha alcuna intenzione di tornare.

Il perché della mitica digressione lo si trova nelle linee guida di Un meraviglioso declino, impressionante disco d’esordio – siglato 42 Records (già casa discografica de I Cani) – del giovane cantautore siracusano: raccontare la precarietà di questi anni, evidenziarla con sano sarcasmo, ma al contempo distaccarsi da questa. E sono proprio il distacco e la volontà di isolarsi nel silenzio a muovere i passi dei protagonisti/astronauti della sussurrata (come vuole l’intimismo di questo lavoro) Restiamo in casa: due rubini incastonati al terzo piano di un palazzo, che si riparano a vicenda dai fari e dal rumore esterno.
C’è spazio per un romanticismo atipico e demistificatorio nella ballata “au claire de la lune” Satellite, mentre con I barbari (che pare una riproposizione dello scritto di Baricco) Urciullo riesce sapientemente a tratteggiare i lineamenti della superficialità odierna: ci vedi bene l’uomo d’affari laurea-munito, che non conosce nessun giorno che non sia il suo oggi (La storia non è un fiore/Da far morire nei margini dei libri di scuola) e nessuna attività che non sia legata ad un qualche profitto. Ne La zona rossa, circondati da uno dei riff più ispirati del disco, emergono la disillusione tipicamente sinistroide a cui ci hanno abituato gli ultimi trent’anni (Da anni sventoli bandiere/Ora di rosso c’è/Solo il tuo viso stanco) e quell’ironia sconsolata che è invece roba recente (Ti porterò in india/Giuro ti ci porto/Anche senza un rene ti ci porto).
Infine un discorso a parte merita il singolo che aveva anticipato l’uscita del disco, S’illumina. Bellissima canzone che, sia negli arrangiamenti che nel cantato in crescendo, deve molto alla nuova corrente folk statunitense capitanata da Fleet Foxes, Wilco e Bon Iver (tanto per citarne alcuni), indicati dallo stesso interessato come suoi maestri personali.

Colapesce gioca sapientemente con la realtà attuale, creando (e delimitando) un luogo, o meglio, più luoghi sicuri nei quali nascondersi. Insomma, dove è più facile (o meno doloroso) osservare il declino esterno, e magari riuscendo anche a conservare quella meraviglia naturale che hanno negli occhi le persone prese da un qualche amore.

Andrea Suverato

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