[Psych Folk/Shoegaze] Papercuts – You …

 

[Folk Psichedelico/Shoegaze] Papercuts – You Can Have What You Want (2009)

Once We Walked In The Sunlight – A Dictator’s Lament – The Machine Will Tell Us So – A Peculiar Hallelujah – Jet Plane – Dead Love – Future Primitive – You Can Have What You Want – The Void – The Wolf

http://www.myspace.com/thepapercuts
http://www.memphis-industries.com

Nei Papercuts convivono l’anima più folk del S.Francisco sound degli anni sessanta e quella del dream pop di matrice britannica, fuse in un album  piacevolissimo oltre che complesso e ben strutturato, pur nella sua immediata godibilità.
La stratificazione dei suoni, nei vari pezzi, è una delle prime cose che saltano all’occhio: una voce   quasi sempre in sordina, che molto ricorda nei registri acuti quella del primo Thom Yorke, viene sommersa da echi di organi analogici e spesso d’epoca. Gli organi, a loro volta, si impiantano su una base ritmica di basso spesso minimale che, insieme alle chitarre, rimane il ponte più evidente verso il folk psichedelico. Avendo cura di “svestire” queste canzoni del tappeto di suoni che le riveste, si arriva infatti a percepire molto chiaramente l’influenza che il country, il rhythm and blues e, appunto, il folk hanno avuto su questa band.

Nonostante sia molto ispirato ed intenso, “You Can Have What You Want” suona comunque leggero e fresco in pezzi come “A Dictator’s Lament”, catchy fin dalle prime note e godibilissima nel ritornello, o “Peculiar Hallelujah”, ripetitivo come un mantra senza ricalcarne l’ossessione.
L’easy listening non è però il primo obiettivo dei Papercuts, prova ne sono pezzi come “Future Primitive”, che parte con un giro fra il rhythm and blues e i primi Doors e finisce come un pezzo degli Arcade Fire, o “The Machine Will Tell Us So”, dove strofa e ritornello si sviluppano in moto contrario: chiusa e riflessiva la prima quanto il secondo è un’esplosione liberatoria.
L’accoppiata conclusiva “The Void” e “The Wolf” sposta ancora una volta l’attenzione dell’ascoltatore, rapendolo con un incedere da canzone di chiesa e con un tono quasi da sermone per portarlo nei paraggi di “A Whiter Shade Of Pale” e poi lasciarlo cadere di colpo nel momento in cui il coro finale si interrompe e l’incantesimo finisce. Rimane,alla fine,  il desiderio di riascoltare tutto da capo, cosa che, di questi tempi, non capita quasi mai al primo ascolto di un album.

Francesca Stella Riva

Lascia un commento