Se difficilmente un disco di Springsteen passa inosservato, un motivo ci dovrà pur essere. Artista prolifico come pochi nella storia, la grandezza del Boss sta proprio nella coerenza mai venuta meno, nell’essere sempre stato dalla parte dei più deboli, di quelli di cui in pochi si occupano, senza risultare mai patetico o populista. Tutto questo risultando il più credibile erede di Neil Young, ancor più che dell’idolo Bob Dylan. “Wrecking Ball” non fa eccezione: in esso sono contenute tutte le anime di Springsteen, ma anche una rabbia che in genere esce allo scoperto negli album in cui l’E-Street Band, i suoi Crazy Horse, viene momentaneamente messa da parte. La scomparsa di Clemons, presente nei due brani già noti da anni, è di quelle che spezzano le gambe e probabilmente l’unico modo per andare avanti era mettere in musica i propri sentimenti, cercando di elaborare il lutto ed esorcizzare i demoni. Se ci sia riuscito forse non lo sapremo mai, ma di sicuro una fragilità come quella narrata in “This Depression“, Springsteen non l’aveva mai manifestata.
La cosa che più affascina del disco è che pare davvero una summa dei suoi ultimi dieci anni: c’è il gospel, ci sono le sonorità della Seeger Session Band e persino il mood di “The Rising“, ma soprattutto una sfilza infinita di musicisti, da Matt Chamberlain all’incredibile Tom Morello a creare trame inedite e sublimi. Quello che a tratti traspare dall’album è la sensazione che Springsteen abbia accettato il fatto che il sogno americano sia definitivamente tramontato. A questo punto, dopo un tour con gli amici di sempre, è difficile immaginare cosa possa riservare il futuro.
Luca Garrò
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