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I romani My Last Fall si affacciano alla scena musicale con un album dal titolo “Clocks in Slowmotion”, dal quale si avverte già la loro voglia e la loro fretta di diventare grandi. Si comincia con una citazione queeniana, il primo brano (o meglio intro) s’intitola infatti “A Morning at the Opera”, ma come musicalità e genere l’album pare attingere non dai mitici ’70 quanto piuttosto da epoche più recenti. Nell’introduzione ci si sente invitati da una sinfonia di suoni “classicheggianti”, violino compreso, per sfociare poi con “Hold Your Breath” in un rock composto (una volta sarebbe stato un ossimoro, oggi è la norma), condotto dalla voce ispirata e lontana di Alex.
Le canzoni si susseguono veloci e omogenee, alcune più intime altre più urlate secondo schemi tradizionali (dopotutto perchè rischiare?), in “Ermione” (seguito da “Ermione Pt.2”, alla Pink Floyd) la cosa si comincia a fare più pesante e la voce si fa grossa, tanto da far venire dubbi sul genere esatto nel quale includere questo lavoro (e questo è certamente un bene). I My Last Fall spaziano e restano sempre uguali, pensano al rock ma si ispirano forse troppo a chi la storia del rock non l’ha fatta davvero. Una volta scelto il giusto maestro la strada è in discesa se c’è il talento, da soli non si può andare. Un gruppo italiano dovrebbe poi sempre tenere conto della propria tradizione e non attingere esclusivamente dalle grandi scuole americana e anglosassone, il Vasco che canta Lucio Battisti (ma amava anche Rolling Stones e Sex Pistols) ne è la testimonianza più evidente, altrimenti si parte inesorabilmente sconfitti rispetto ai gruppi “madrelingua”. Tra la tanta voglia di pogare, di sfondare e di fare altre belle cose trova spazio anche la dolcezza di “Every End’s a Brand New Start”, all’inizio della quale sembra sentire un cantante assolutamente britpop.
Il primo album è andato, adesso non si può che augurare a questi ragazzi che la Musa canti loro la strada giusta.
Paolo Bianchi