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I Lana sono un quartetto italiano, bergamasco per la precisione. Sono attivi sin dal lontano – per la concezione che il mondo musicale di oggi ha del tempo – 1996. Per tutti questi anni si sono spesi artisticamente in quel particolare genere di limbo che trattiene a sé le band non sufficientemente talentuose o, semplicemente, poco fortunate. Eppure i nostri vantano un curriculum di tutto rispetto: finalisti nazionali ad Arezzo Wave 2002, concerti condivisi con Verdena, Ulan Bator, Tre Allegri Ragazzi Morti e, prima di “Good Morning Apnea”, la pubblicazione di altri due album, “Esiclonica” (2003) e “C’è il sottile dentro e sotto i ponti” (2005). Dopo 14 anni di attività sono sempre tra noi, ad aspettare il grande salto.
Descrivono “Good Morning Apnea” quale disco “scuro e livido, in bilico tra rock, grunge e psichedelia”. C’è del vero in queste parole, almeno in parte. La loro terza fatica sulla lunga distanza è effettivamente preda di suoni cupi, a volte malinconici, a volte violenti e riluttanti a qualsiasi tentativo di addomesticazione. Anche i riferimenti stilistici sono piuttosto azzeccati: c’è il grunge dei Pearl Jam e la psichedelia dei primi Tool, quelli di “Undertow”; di conseguenza, anche qualcosa dei Soundgarden fa capolino fra le note del disco. C’è pure un suono dal taglio moderno che spesso si diletta con digressioni in odore di post rock e scampoli di post hardcore e lievi accenni al ‘vecchio’ nu metal. Così i Lana illudono noi tutti con le prime battute dell’album: “Breath” mena piacevoli fendenti a pancia e cervello, nella ritmica ricorda davvero la band di Maynard Keenan, e le intrusioni sinfoniche non danno fastidio, anzi enfatizzano ulteriormente il finale incandescente e dissonante; la successiva “Desmond”, più soft, è splendida nel suo trasognato post rock che, nel lavoro della chitarra, fa addirittura pensare a qualcosa degli Slint, anche se l’incantesimo dura solo pochi secondi. I problemi, semmai, arrivano dopo. Quando il minutaggio sale, i pezzi si susseguono e il complesso si normalizza in un italico alternative rock troppo anodino per colpire nel segno, un po’ Verdena un po’ Afterhours un po’ Marlene Kuntz, troppo melodico e orecchiabile date le premesse. A sprazzi si riascolta qualcosa di notevole: la coda strumentale di “Fine”, postcore metallico e tagliente; la nevrosi erotica e onirica di “Mexico”. Pochi sprazzi, purtroppo, che non impediscono a “Good Morning Apnea” di scivolare, lentamente, nell’anonimato del “carino, ma non essenziale e neppure duraturo”. E non aiuta neppure la scelta di passare continuamente, nel cantato, dall’inglese all’italiano; dà l’impressione di aver a che fare con una formazione un po’ troppo confusa sulla direzione che deve intraprendere.
Proprio questo è il punto. I Lana vogliono essere scuri e lividi, e quando lo sono per davvero il loro valore si alza inesorabilmente. Ma non hanno il coraggio di esserlo fino in fondo, di conficcare il coltello nella carne nella sua interezza, di mostrare per davvero la metà oscura della mente: si accontentano di girarci attorno. E, così facendo, riducono di molto il loro potenziale. Peccato, ma anche quest’opera non riuscirà a strapparli dal limbo in cui gravitano.
Stefano Masnaghetti