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La band di Toronto guidata da Kevin Drew e Brendan Canning si è ridotta, forse normalizzata, e qualcosa è un po’ cambiato. Ora si contano sette membri fissi (anche se poi in fase di registrazione la line up si gonfia vorticosamente di collaboratori).
Nell’ultimo decennio il loro nome è stato sinonimo di collettivo. Un’esperienza artistica tanto cara alla mentalità canadese, a quanto pare (vedi GYBE). Un modo di concepire musica e i suoni del rock e pop filtrati attraverso il post-moderno che piano piano ha fatto proseliti nel mondo, andando a creare band con la stessa impronta, che successivamente hanno avuto successo.
Intanto nell’ultima manciata di anni l’indie rock non ha avuto più grandi scossoni a discapito della musica più hype del momento, in continuo cambiamento da moda a moda.
I ragazzi canadesi mancavano dagli scaffali dei negozi di dischi dal 2005, mentre sono fioriti i progetti della serie “Broken Social Scene Presents…”, in cui venivano fuori le idee dei singoli, Kevin Drew prima e Brendan Canning poi.
Il loro pout-pourri sonico è ancora vivo e vegeto. Ritroviamo la stratificazione delle chitarre, le cavalcate, le melodie, il pop rock che improvvisamente vira all’elettronica sperimentale. Una borsata di stili che già avevamo incontrato nei loro dischi precedenti e riusciti.
Ma nonostante le caratteristiche rimangano uguali, il disco perde per ko rispetto al passato. Intanto quattordici tracce che superano l’ora di musica sono un bel piatto pesante da digerire interamente. E poi la cosa che salta all’orecchio è la perdita di quella freschezza, di quel clangore fantastico e immaginifico. Manca un po’ di ispirazione e i brani meritevoli e riusciti non arrivano alla famosa conta delle dita di una mano. Poche novità, poche spinte e poca brillantezza. L’ascolto non è più così leggero, anche se le loro trame sono riconoscibili. E il disco dopo ripetuti ascolti è poco sfavillante, poco fluido, poco efficace.
Luca Freddi