Prima tappa italiana del Progressive Nation tour 2009, l’esibizione milanese è stata forse leggermente penalizzata dalla data (un lunedì lavorativo per un semi – festival della durata di parecchie ore), tant’è vero che il Forum di Assago era ben lungi dall’essere sold out, ma, anche tenendo conto di questi ‘inconvenienti’ (oltre al fatto che i Dream Theater avevano suonato in Italia solo pochi mesi fa, al Gods Of Metal di Monza), l’evento è stato comunque un successo.
Soprattutto in considerazione del fatto che anche il primo gruppo della serata, gli Unexpect, ha potuto contare su un discreto drappello di spettatori, considerata l’ora d’inizio del proprio set (non erano neppure le sette).
Unexpect che tengono fede al loro nome: pochi li conoscevano già, pochissimi si sarebbero aspettati un mix così ardito di chitarroni metal, tastiere cyber, sfumature folk (grazie all’uso del violino), accenni di musica classica e presenza scenica pazzesca. Fin troppo parossistici e farraginosi in alcuni passaggi, tuttavia ce la mettono tutta per appassionare gli astanti e convincere che hanno personalità da vendere. Una bella sorpresa.
Introdotti dalla colonna sonora di “Star Wars”, è il turno dei Bigelf. Il quartetto statunitense è già più conosciuto e riconosciuto degli Unexpect, tuttavia anche per loro si tratta del primo concerto tenuto del nostro paese. Un’esibizione impeccabile la loro, anche se il senso di spaesamento è forte: vedere il cantante Damon Fox indossare una giacchetta verde sgargiante e dibattersi avviluppato fra organo hammond e tastiere analogiche riporta alla mente i tempi eroici del progressive, quando per artisti quali Genesis ed ELP questo modo d’esibirsi rappresentava la norma, mentre adesso il robusto hard prog settantiano dei Bigelf, infarcito di rimandi ai Deep Purple più ‘psichedelici’ e spruzzato di glam, suscita una strana sensazione. Soprattutto perché, nonostante i rifermenti musicali siano così lontani nel tempo, le loro canzoni convincono e trascinano anche il pubblico del 2009. Anzi, rispetto alle prove su disco, molto spesso sin troppo pompose e sovra arrangiate, dal vivo la band mostra il suo volto più rock e diretto, e i loro pezzi ne traggono un indubbio beneficio. In appena quaranta minuti di durata spazzano via ogni dubbio sulle loro capacità in sede live, trovando anche il tempo per ringraziare Mike Portnoy, che li ha voluti nella squadra del Progressive Nation, e suonare un brano con lui. Un successo su tutti i fronti, sia artistico sia umano: finita l’esibizione non avranno remore nel mischiarsi fra la folla, firmando autografi e facendosi fotografare dai loro fan. Speriamo di rivederli al più presto.
A non convincere del tutto sono gli Opeth. Intendiamoci: loro ormai sono dei seri professionisti, e a livello esecutivo non sbagliano nulla. Åkerfeldt ha raggiunto una padronanza vocale perfetta, passando dal pulito al growl con una naturalezza incredibile, oltre a confermarsi frontman fra i più ironici e simpatici in circolazione. Dice di essere l’Eros Ramazzotti svedese, invita il pubblico a non essere troppo timido, dice di essere un idiota ma anche un genio quando è il momento di comporre musica (parafrasando, nel senso, la famosa frase dei Rush: “Individually, we are a ass; but together, we are a genius”), e via di questo passo, come da programma. Ecco, il punto è proprio questo; sembra che gli svedesi abbiano cercato semplicemente di svolgere il loro lavoro (e questo è pure comprensibile), senza però metterci un minimo di passione e divertimento in più (componenti che, almeno in piccole dosi, non dovrebbero mai mancare, neppure quando di tratta di artisti affermati). Forse era il contesto: vero che gli Opeth hanno creato uno stile personalissimo e che può ben essere definito progressivo, soprattutto visti i suoi recenti sviluppi; tuttavia le radici ‘estreme’ dei Nostri si fanno ancora sentire, e probabilmente loro stessi non si trovavano completamente a proprio agio in quest’occasione. Comunque la scaletta è stata piuttosto azzeccata, ben bilanciata fra brani vecchi e nuovi: peccato la totale mancanza di composizioni prese dai primi due dischi (forse i loro veri capolavori), e peccato che i pezzi del nuovo continuino a non convincere, neppure in sede live, ma una “Leper Affinity” non smetterà mai di emozionare i fan di questa band. In ogni caso, la prestazione di ‘routine’ del complesso è stata ribadita anche dalla breve durata della stessa: neppure un’ora, lasciando una voragine temporale (più di 40 minuti) fra la fine del loro show e l’inizio di quello degli headliner.
I Dream Theater hanno confermato di essere ormai giunti allo status di rockstar. Anzi, di essere al di là del bene e del male, soprattutto per i loro fan più stretti, quelli che in politica verrebbero chiamati, con orribile espressione, lo ‘zoccolo duro’. Per questi è indifferente che il quintetto componga dischi ispirati o meno, accetterebbero tutto dai loro idoli; posizione privilegiata che solo alle rockstar è concessa. Breve introduzione che serve a ribadire una mia opinione, che però pare essere condivisa anche da molti che apprezzano il Teatro del Sogno senza esserne fan sfegatati, ossia la convinzione che i nuovi dischi siano di molto inferiori rispetto ai loro vecchi classici, soprattutto da quando se n’è andato Kevin Moore. Certo, anche dopo la sua dipartita si sono avuti momenti notevoli: penso soprattutto al retrospettivo, ma affascinante, “Metropolis Pt.2”, e al più metallico “Train Of Thought”. Per il resto parecchia noia e molta, troppa retorica (anche se loro dicono che sono alla ricerca dell’epica); compreso il nuovo “Black Clouds & Silver Linings”, ancora largamente insufficiente, sebbene mostri una parziale riscossa rispetto a “Octavarium” e “Systematic Chaos”, i punti più bassi della loro carriera. Non a caso il primo viene del tutto ignorato nella scaletta, mentre del secondo viene proposta la sola “Prophets Of War”. Evidentemente anche loro stessi si rendono conto della mediocrità delle due release in questione. Largo spazio invece all’ultimo album, dal quale vengono estratti sia il brano d’apertura sia quello di chiusura (vedi setlist). Peccato che anche questi pezzi non reggano proprio il confronto con i loro classici, e il concerto di stasera ne è stata l’ennesima prova. Dico tutto questo con un po’ di delusione e molta amarezza, perché se c’è un pregiudizio che i Dream Theater stanno demolendo con il passare degli anni e delle esibizioni live è quello che li taccia, da sempre, di essere un gruppo freddo, incapace di trasmettere emozioni e interessato solo al lato tecnico della musica. Niente di più falso, e chi, dopo averli visti sul palco in occasioni come queste, sostiene ancora tale accusa è o sordo oppure semplicemente in malafede. In realtà Portnoy e compagni sono in grandissima forma, sia in quanto a carisma sia in quanto a perizia esecutiva: a parte il fin troppo discreto John Myung, il resto del gruppo ha presenza scenica da vendere, con LaBrie che si permette pure di correre sul palco senza perdere nulla in brillantezza vocale, con un Petrucci ispirato, un Rudess che intona gli accordi di “O mia bela Madunina” per la delizia del pubblico presente, e con lo stesso Mike che dietro le pelli conserva l’entusiasmo di un ventenne. C’è chi si è lamentato della brevità dello show, ma sinceramente in un’ora e mezza i fab five del prog metal ci hanno messo tanto entusiasmo e tanta partecipazione emotiva che è sembrato di assistere ad un concerto di tre ore almeno (per fare un paragone recente: al Gods si erano dimostrati molto meno in ‘palla’). È bello vedere quanto credono nella loro musica e nelle loro ultime composizioni, meno entusiasmante è constatare quanto i nuovi pezzi si sgretolino di fronte a brani come “Lie” o “The Mirror”. Non si tratta di nostalgia, come molti potrebbero pensare: si tratta semplicemente di rilevare un dato di fatto: capolavori quali “Images And Words” e “Awake” hanno cambiato il corso della storia del metal, mentre le ultime fatiche vivacchiano abuliche e anodine solo grazie al buon cuore dei loro adepti più devoti. Anche per loro, ormai, vale la considerazione che si fa per altri nomi storici del rock: potrebbero smetterla di far dischi e concentrarsi esclusivamente sull’attività live, tanto il loro miglior repertorio è così prezioso che non invecchierà mai. In ogni caso vederli dal vivo è, ancora oggi, un’esperienza indimenticabile.
Opeth setlist: Windowpane – The Lotus Eater – Reverie/Harlequin Forest – April Ethereal – The Leper Affinity – Hex Omega
Dream Theater setlist: A Nightmare To Remember – The Mirror – Lie – Keyboard Solo – Prophets Of War – Wither – The Dance Of Eternity – One Last Time – The Spirit Carries On – In The Name Of God
Encore: The Count Of Tuscany
Stefano Masnaghetti