The Mirror’s Truth – Disconnected – Sleepless Again – Alias – I’m the Highway – Delight and Angers – Move Through Me – The Chosen Pessimist – Sober and Irrelevant – Condemned – Drenched In Fear – March To The Shore
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Il nuovo In Flames prosegue il discorso di “Come Clarity” (2006), portando se possibile ancora più melodie e più orecchiabilità rispetto al predecessore. Il risultato è un album piacevole da ascoltare (forse un po’ meno di quello di due anni fa), che comprende, come tradizione vuole, un po’ tutti gli elementi del sound del gruppo svedese, sapientemente amalgamati per piacere a tutti gli appassionati di metalcore, death melodico e anche più semplicemente ascoltatori dell’ultim’ora.
Da aggiungere che Friden canta pulito ancora più frequentemente di prima, che i ritornelli sono a tratti quasi emo e che synth ed elettronica sono parte importante di questo platter.
Inutile nascondersi, Strömblad e soci hanno oramai un posto di rillievo tra quei gruppi che definiscono (vi piaccia o meno) l’heavy moderno del terzo millennio: impatto, velocità, mid-tempos americani, hooks e ritornelli ruffiani, momenti più lenti e sofferti qua e là.
Oramai non hanno nemmeno più bisogno di scrivere inni, si limitano a mettere i pezzi fighi (“I’m The Highway”, “Sober And Irrilevant”, “Condemned” e “March To The Shore”) dopo le prime 4 carine ma molto standardizzate tra loro, piazzare un disegno ridicolo in copertina, e mettere come bonus track jappanze due pezzi quasi old-school, giusto per prendere per il culo chi ancora aspetta il ritorno agli anni novanta.
Allora, di volponi come loro nella musica rock ce ne sono pochi. Bisogna dare atto a questi svedesi di essere sempre riusciti a saltare sempre sul vagone della moda del momento senza snaturare troppo la loro personalità.
Ormai gli anni passano, e l’unica sorpresa interessante della loro carriera è stata la svolta ai suoni moderni di Reroute To Remain (2002). Poi ci sono stati i flirt con il metalcore e ora è tempo di cambiare ragazza e cercare di attirare più emo possibili. La copertina parla da sola, testi come ‘I feel like shit, but at least I feel something’ aiutano ad eliminare di botto il cervello di qualsiasi ascoltatore post scuole dell’obbligo.
Musicalmente il sound è quasi un ritorno al passato di Clayman (2000), con tanta doppiacassa, duelli di chitarre, suoni caldi ma soprattutto sempre più melodia. Non becera commercialata ma di sicuro hanno avuto un occhio di riguardo per certe mode; comunque dal vivo se vogliono possono ancora spaccare tutto.
Bel prodotto di plastica fiko fiko per chi ha una certa età e segue il trend emo (nell’accezione deformata dal mainstream, ovviamente), per tutti gli altri può essere un buon passatempo se ascoltato distrattamente, perché se preso sul serio ne genera fin troppe di emozioni. Tutte quelle sbagliate, però.
M.B.