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Alexander Veljanov è diventato famoso come cantante dei Deine Lakaien, celebre duo tedesco di darkwave neoclassica (l’altro membro è il compositore Ernst Horn), che in patria è ormai un’istituzione. Col passare del tempo, però, il musicista ha sentito l’esigenza di avviare, in parallelo alla sua collaborazione con Ernst, anche una carriera solista; così nel 1998 ha debuttato in questa veste con il disco “Secrets Of The Silver Tongue”, seguito nel 2001 da “The Sweet Life”. Dopo anni dedicati esclusivamente ai suoi impegni con i Deine Lakaien, Alexander torna a far parlare di sé con “Porta Macedonia”.
Partiamo dal titolo, il quale può essere letto, credo, come un omaggio alla sua patria d’origine, dato che stiamo parlando di un’artista nato in terra macedone e solo successivamente trasferitosi in Germania. Probabilmente è per questo che in alcune canzoni compaiono strumenti quali kaval e zurla, rispettivamente una sorta di flauto ed una specie di oboe, entrambi appartenenti alla tradizione popolare della Macedonia. Veljanov, quindi, opera una sovrapposizione tra dark elettronico ed elementi folklorici, ricoprendo il tutto di echi classici, questi ultimi chiaramente mutuati dall’esperienza, ormai più che ventennale, con i Deine Lakaien. A volte un aspetto ha la meglio sull’altro: “Königin Aus Eis” occhieggia a sonorità ballabili, senza però giungere a risultati smaccatamente EBM, mentre in “Dirt” si fanno largo accenti esotici ed acustici. A svettare sopra ogni altra composizione è, però, il cabaret post punk di “Der Kongress” e di “Lily B.”, nelle quali la lezione di Kurt Weill viene riletta con abilità stupefacente, tanto che viene spontaneo chiedersi perché rimangano episodi isolati. In ogni caso, Alexander convince di più nei pezzi cantati in tedesco,lingua che sa rendere incredibilmente dolce e languida, grazie al suo profondo e scuro timbro vocale.
A parte i due apici sopraddetti, il disco scorre cupo e malinconico per oltre un’ora, provocando un effetto quasi ipnotico, facendo sprofondare lentamente l’ascoltatore nell’oblio. Penso che questo rappresenti perfettamente il valore, ma anche i difetti di “Porta Macedonia”: le rotondità degli archi, l’incedere costante e ritmato della componente electro e gli spunti balcanici si amalgamano bene, ma a lungo andare le canzoni paiono fin troppo monocromatiche e prevedibili. Inconvenienti che vengono mitigati dalla raffinatezza e dalla sensibilità musicale di Veljanov, tanto che il bilancio finale è sicuramente positivo; tuttavia qualche altro brano più vivace e particolare, sulla falsariga dei due piccoli capolavori sopraccitati, avrebbe alzato ulteriormente il livello qualitativo di un lavoro già buono.
Stefano Masnaghetti