A meno di due anni di distanza dall’uscita di “A Thousand Suns”, che avevamo in parte apprezzato, per i Linkin Park è la volta di “Living Things”. Generalmente quando intercorre così poco tempo tra due releases, i motivi sono principalmente questi: a)l’artista/band in questione ha talmente tanto buon materiale da poter pubblicare due dischi uno dopo l’altro o b)vuole aggiustare il tiro rispetto al disco precedente. In tutta onestà, pensiamo che l’intento della band di Los Angeles fosse quest’ultimo; peccato che il risultato non sia dei migliori. L’opener “Lost In The Echo” trae in inganno perché dà la (falsa) speranza di aver ritrovato i cari vecchi Linkin Park, sospesi tra melodie accattivanti e rabbia allo stato brado. Purtroppo non è così. Duole ammettere che “Burn It Down”, il primo estratto, da canzone che aveva fatto storcere il naso si rivela, ahinoi, forse la più convincente di tutto l’album. Tra gli episodi peggiori di “Living Things”, il primato va senza appello a “Victimized”. La traccia, dipinta come la più violenta del disco, risulta nient’altro che un insieme di urla a caso di Bennington, una sorta di parodia di se stessi. “Until It Breaks” è l’unico pezzo che si dimostra coerente con il sound originario del gruppo, rappato incisivo del Shinoda dei tempi migliori e cantato di Chester.
Se proprio si vuole trovare un pregio nei 37 minuti di durata dell’ultimo lavoro dei californiani, è l’immediatezza e l’orecchiabilità delle melodie che si insinuano nella mente dopo pochi ascolti, ma il sound accattivante non è sinonimo di disco perfetto, tutt’altro. E’ pur vero che il nu metal e il crossover non hanno più molto da dire, ma non sarebbe male cercare di reinventarsi sfruttando le prime cartucce sparate e cercare di attualizzarle senza snaturarsi. Ma forse è troppo presto. O troppo tardi, chi lo sa. Ai posteri l’ardua sentenza.
Claudia Falzone
[youtube dxytyRy-O1k]