[Progressive Metal] Baroness – Blue Record

  

[Progressive Metal] Baroness – Blue Record (2009)

Bullhead’s Psalm – The Sweetest Curse – Jake Leg – Steel That Sleep The Eye – Swollen And Halo – Ogeechee Hymnal – A Horse Called Golgotha – O’er Hell And Hide – War, Wisdom And Rhyme – Blackpowder Orchard – The Gnashing – Bullhead’s Lament

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Secondo lavoro sulla lunga distanza per i Baroness, e a confermare il marchio della band di Savannah ci pensano titolo (dopo l’album rosso è il turno del disco blu) e copertina (sempre firmata da John Baizley, voce e chitarra del gruppo). Per il resto il cambio di stile è netto. In un certo senso radicale, tanto che al primo giro di lettore si corre il rischio di rimanere totalmente spiazzati. Forse anche un po’ delusi.

Erano partiti come mutazione dei Mastodon in chiave psichedelico – progressiva, meno intricati ma più avvezzi all’abbandono melodico e alla dilatazione lisergica. Oggi, mentre i loro conterranei si son fatti prendere la mano dalle scorribande in amplificazione valvolare degli anni Settanta, i Nostri hanno deciso di compiere un percorso per certi versi opposto, privilegiando un approccio più secco e diretto per le loro composizioni.

In realtà anche in “Blue Record” si guarda molto ai Seventies, ma da una prospettiva diversa. Si coglie il lato più spigliato e ‘ruspante’ di quel decennio (soprattutto, il suo aspetto ‘sudista’), e lo si associa a certo metal degli anni Ottanta (chiaramente percepibile in certi passaggi delle due chitarre gemelle). In questo senso, in pezzi senza fronzoli come “The Sweetest Curse” e “Jake Leg” gli echi di band quali Mastodon, Iron Maiden, Metallica, Lynyrd Skynyrd e Molly Hatchet sono udibili tutti assieme e in parti quasi uguali. I Baroness maggiormente progressivi arrivano solo dopo, quando un riffing asimmetrico e pulsante introduce “A Horse Called Golgotha” e quando la strumentale “O’er Hell And Ride” gioca con ritmi simil dance, scorie metalliche e voci narranti in sottofondo. Se hard rock e classic metal vengono esaltati, accanto ad una pur sempre presente ricerca musicale, alcune componenti che avevano fatto grande “Red Album” vengono invece sacrificate in nome di una maggior snellezza d’insieme: lo sludge è ormai quasi un ricordo, così come certe aperture di ambient acido e pastoso che tanto entusiasmo attirarono sull’esordio discografico. Nella nuova opera c’è poco tempo per le distrazioni, salvo alcuni episodi acustici: tutto è predisposto per avere impatto immediato, per offrire all’ascoltatore il chorus cantabile e il riff incisivo.

Difficile capire le ragioni di questa svolta: forse il complesso aveva paura di smarrirsi in brani troppo dispersivi e farraginosi, perdendo la capacità di scrivere canzoni più tradizionali. Ancor più difficile giudicare un’emissione simile. Se è vero che qualcosa si è guadagnato in termini di pura fruibilità, è altrettanto innegabile che certe magie siano scomparse. Penso, ad esempio, all’introduzione di “Rays On Pinion”, sublimemente evocativa e dai rimandi quasi wagneriani (mi ha sempre ricordato le prime note dell’overture del “Lohengrin”). Ma si potrebbero chiamare in causa tanti altri momenti.

“Blue Record” rimane sicuramente un buon disco, composto da un ensemble che ha ancora moltissimi margini di crescita. Tuttavia presenta le lacune tipiche di un album di transizione. Interessante, ma non del tutto a fuoco. Adesso non resta che aspettare il prossimo passo, sperando che sia più convincente.

Stefano Masnaghetti

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