[Cosmic Free Folk] Natural Snow Buildings – Shadow Kingdom (2009)
CD 1: The Fall Of Shadow Kingdom – Gorgon – For Fear They May Come Back Childrens Of The Seventh Girgle The Dark Road – Cauled Ones And Birth Rugs – Salty Tongue – Go Away Disappear – Os Deus Cannibais – The Faceless – The Crystal Birds
CD 2: Sunlone – Chthonian Odyssey/Hells Foundations/A Birth Mark Like A Scar – From Their Body At Will – The Desolated Vampires/Introduced To Fear/Slarer March – The Vein Of Invisibility – Porridge Stick Into The Fire And Dust In The Direction Of The Sun – A Burial At Sea
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Il duo francese dei Natural Snow Buildings ha sempre avuto il pessimo difetto di abbandonarsi ad una smisurata frenesia compositiva, che gli ha impedito di valutare con attenzione quali fossero le opere realmente degne di pubblicazione e quali, invece, sarebbe stato meglio lasciar da parte, in attesa di tempi (e revisioni) migliori. In una decina d’anni appena si sono susseguiti una quindicina di album, molti dei quali usciti solo in formati ‘scomodi’ (cassetta, vinile, cd – r) e per giunta limitati a poche copie. Anche a causa di questo, una musica già ostica di suo ha trovato terreno fertile soltanto presso pochissimi appassionati. Oltre a tutto ciò, Solange Gularte e Mehdi Ameziane si son lasciati frequentemente prendere la mano da una fastidiosa prolissità di fondo che ha rovinato molte loro opere: così, se alcune di esse sono ottime (“The Dance Of The Moon And The Sun” su tutte), altre sono invece appena sufficienti (Slayer Of The King Of Hell), e altre ancora sono preda di una logorrea francamente insopportabile (“Daughter Of Darkness”, 5 cassette per una durata complessiva di circa 6 ore).
Eppure i Nostri meriterebbero maggior fortuna (e dovrebbero gestirsi in modo meno sconsiderato, ovviamente), perché la loro caratura artistica non è certo di poco conto. Il nuovo doppio cd “Shadow Kingdom” (ma c’è anche la versione in triplo vinile) sta qui a dimostrarlo. Per una volta la lunghezza del lavoro, che sfiora le due ore e 40 minuti, non è un ostacolo, tutto scorre bene e riesce a ipnotizzare l’ascoltatore come, forse, i NSB non erano mai stati in grado di fare in passato. Tanto che lo si potrebbe considerare il loro capolavoro, o perlomeno il disco in cui meglio sono elencate le varie componenti del loro suono.
Si tratta di un continuo scivolare in dimensioni estranee alla quotidianità e al tempo così come è normalmente concepito. Messa fra parentesi la fittizia scansione cronologica utilizzata dall’uomo, il gruppo crea un universo a se stante, nel quale l’antico si confonde con il moderno, il cosmo con la terra, la memoria delle cose trascorse con l’attesa di quelle future, il sogno con la veglia, il mito con la scienza. Per far questo l’idioma utilizzato è un free folk dilatato a dismisura dall’ambient, dal drone, dalla psichedelia più onirica: in definitiva, tutti espedienti per definire un’enorme tensione spirituale che rappresenta la principale fonte d’ispirazione di tutte le creazioni presenti in “Shadow Kingdom”. La ‘landscape music’ di “The Fall Of Shadow Kingdom” è stretta parente dei Tangerine Dream più religiosi, riletti in chiave lo – fi; “For Fear They May Come Back Childrens Of The Seventh Girgle The Dark Road” incrocia il folk medievale con la ‘kosmische musik’ dei primi Settanta (in gran parte dei brani il violoncello della Gularte si avvicina al timbro della viella); in “Cauled Ones And Birth Rugs” la voce della Gularte stessa ci fa pensare a dei Dead Can Dance errabondi fra le varie costellazioni; “Salty Tongue” si muove fragile e incerta fra oriente e profumi celtici; “Os Deus Cannibais” trasforma Klaus Schulze in un musicista del XIII secolo; “The Faceless” si permette pure una digressione nel folk d’oltreoceano (cfr. l’uso dell’armonica).
Ma il meglio è contenuto nel secondo cd. Innanzitutto ci sono i quasi 24 minuti della suite “Chthonian Odyssey/Hells Foundations/A Birth Mark Like A Scar”, psycho – folk cosmico che con incredibile naturalezza amalgama dissonanti aperture ‘free form’ degne dei Red Crayola, visioni lisergiche vicine a quelle degli Acid Mothers Temple più misurati, derive alla Stars Of The Lid e tanto altro ancora, con un’impostazione di fondo che è riconducibile alla musica sacra dell’età di mezzo. E poi c’è l’odissea sciamanica di “Porridge Stick Into The Fire And Dust In The Direction Of The Sun”, altri 24 minuti che, questa volta, rasentano il baratro della follia, un cupo rituale lisergico che si snoda fra percussioni ottundenti, drones esasperati e blasfeme cacofonie di flauto.
Si spera che questa magnifica opera, così efficace nell’abbracciare e fondere in un unico stato mentale le diverse percezioni della trascendenza che si sono avute nella storia umana, rappresenti un punto di svolta per la carriera del duo transalpino; insomma, che Solange e Mehdi inizino a sfruttare meglio le loro capacità artistiche, anche dal mero punto di vista ‘commerciale’.
Stefano Masnaghetti