Band Of Horses Mirage Rock

Bisognerebbe ormai sfatare il mito musicale secondo cui “il secondo album è sempre il più difficile per l’artista”. Non è affatto vero – anche perché di questi tempi chi sbaglia la seconda uscita viene ben presto bollato come fuoco di paglia, e raramente si è lì ad aspettarlo una terza volta. Ad ogni modo si diceva, il problema non è il secondo disco. È il quarto. Rifletteteci un attimo. Killers, Strokes, Bloc Party; tre band di culto degli anni zero, forse l’esempio più brillante di ciò che ha da offrire la musica dei nostri giorni. Un cammino in perenne ascesa, che vede il loro pubblico – e non solo – espandersi ad ogni nuovo album sfornato. Fino ai loro ultimi lavori, che corrispondono al numero sopracitato di album in carriera. In generale si può definire un punto di snodo, più che una debacle: c’è chi la prende meglio, come i Bloc Party, che sfruttano il momento per reinventarsi (risultando tra l’altro molto convincenti, il più delle volte); e chi peggio – in particolar modo i Killers (e direi che non servono ulteriori commenti). Sta di fatto comunque che qualcosa c’è. Sarà che la musica cambia continuamente – oggigiorno più di prima, anche solo se si parla di cinque/dieci anni fa – e spesso drasticamente, sarà la nuova sensibilità che si è sviluppata nell’ascoltatore, l’ansia, la disperata ricerca della novità… qualcosa. Sì, ma i Band of Horses ?

Ora ci arrivo. Il discorso è presto detto: ciò che vale per gli altri gruppi citati, vale anche per loro. Dopo tre ottime prove, tutto sommato sul filo della continuità (fatto salvo per quelle inevitabili differenze stilistiche, che fanno di un album nuovo un album che possa definirsi, per l’appunto, nuovo) il gruppo di Bridwell & co. viene attratto – o comunque ne avverte l’esigenza – dal cambiamento. I 5 di Seattle lo fanno immergendosi del tutto in quella tradizione country folk e bluegrass della quale, del resto, non hanno mai nascosto le robuste radici. E il risultato non è certamente dei migliori. Questo per il fatto che i Band of Horses dimostrarono già con Everything All the Time, loro disco di debutto, di aver saputo tirare fuori da quei determinati stili un’interpretazione del tutto personale e coinvolgente, riconfermata poi con Cease to Begin. Pezzi come The Funeral, Is There a Ghost e No One’s Gonna Love You non sono da tutti, intendiamoci. Con Mirage Rock invece la band sembra voler forzare un ritorno alle origini che non gli si addice per niente. Sia ben chiaro, le canzoni filano una dietro l’altra senza troppi problemi – siamo ben lontani dall’insopportabilità all’ascolto e allo skip spontaneo dopo una ventina di secondi –, ma più come un piacevole sottofondo. Dopo il brillante singolo Knock Knock (la migliore traccia del disco) ad aprire le danze, si apre il sipario retrò che ci porta alla situazione poco fa descritta: a cercare i punti più alti di questa sezione, si possono menzionare senz’altro Slow Cruel Hands of Time e Long Wovs, lente ballate che esaltano la melodicità del cantato di Ben Bridwell. Altra traccia che esula dal pattern del disco è la cavalcante Feud, malinconica e coinvolgente al tempo stesso – non a caso, in questa come nella già citata Knock Knock, i Band of Horses tornano con gli strumenti ai lavori precedenti, e vien quasi da dire che si vogliono dare la zappa suoi piedi da soli, perché sono quelle le cose che sanno fare meglio. E si vede.

Andrea Suverato

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