Pat Metheny Group – Auditorium Parco della Musica, Roma 17 luglio 2010

Pat & Lyle debbono avere firmato un patto col diavolo, dato che il tempo trascorre, i lustri, i decenni e questi due compari continuano a saltellare qua e là per il pianeta con la loro musica.

E com’è la loro musica? Bella, molto bella senz’altro.
Per nostra fortuna la forma ‘essenziale’ di quartetto ci preserva dal pleonasmo di improbabili cori tibetani, di tastieristi a iosa, di percussioni e vocette varie.
Stasera abbiamo bevuto la miscela 100% metheniana-maysiana che da sempre ci è piaciuta e ci convince.
La passione di Metheny, il suo innamoramento per tutto ciò che abbia forma di mazza cordata, sei corde, 12 corde, ‘n’corde (come le caso della “Picasso guitar”, oggetto misterioso che ci fa capire come il compianto pittore spagnolo fosse avanti e cioè non era lui che disegnava oggetti strani erano gli oggetti strani che non erano stati ancora disegnati…) ci contagia ogni volta.
Metheny potrebbe suonare da solo, in duo, in trio, in qualsiasi forma. Tu gli porgi un oggetto e lui comincia a percuoterlo, a sfiorarlo, a stuzzicarlo. Se poi ci aggiungi la varie scatolette elettroniche con i digital delay che cominciano a riverberarsi gli uni addosso agli altri senza cozzare tra loro, come in un magico autoscontro dove le varie macchinine si sfiorano fra loro senza mai urtarsi, il gioco è fatto.
La mente metheniana è un ‘topos’ bellissimo, dove il ‘chaos’ è magicamente ricondotto ad ordine, il ‘logos’ scorre, come la ‘lux aeterna’, di omerica memoria.
Mays continua a farsi beffe del sistema tonale, con assoli fuori di qualsiasi riferimento, sostituendo le sostituzioni, suonando una scala che parte da re bemolle e, salendo, in una sorta di universo escheriano, ci porta in basso. Mays non è un pianista ma un funambolo che ci fa capire come, stando in piedi sulle mani, il mondo possa essere un luogo perfino divertente.

L’eterna giovinezza dei due musicisti è pagata, in termini di imbolsimento fisico, da uno Steve Rodby sul quale i lustri, i decenni di cui sopra sono passati con eroico furore. Ma la giovinezza artistica è intatta, uno smalto non cariato che si esprime attraverso assoli ricchi di brio e di intelligenza.
Antonio Sanchez rappresenta una forza della natura, jazzista di razza, capacissimo di dare delicatezza o vigore, spinta o attesa, di picchiare o sfiorare.

Tra “Are you goin with me?”, “Phase Dance”, “Farmer’s Trust”, “San Lorenzo” e via dicendo trascorriamo due ore e passa che ci fanno dimenticare perfino l’arsura senza speranza di quest’estate a Roma.
Due vecchietti a lato di che vi scrive continuano a fare un coro da stadio, sarà pure perche “Minuano” inizia, forzando un po’ le cose, come uno stornello trasteverino.
Tra fischi, urla, tifo da curva sud, “daje Patrizio, sei ‘na forza”, applausi a piene mani ce ne andiamo via carichi di bellissime storie, al solito ingannati ed illusi da questo tipo che se non fosse divenuto Pat Metheny sarebbe finito, su sua ammissione, a lavorare ad una pompa di benzina.
Ma è andata meglio così, Patrizio. E hanno ragione loro, sei proprio forte!

Pat Metheny, chitarre
Lyle Mays, pianoforte & tastiere
Steve Rodby, contrabbasso & basso elettrico
Antonio Sanchez, batteria

Marco Lorenzo Faustini

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