Come puoi anche solo pensare di essere obiettivo ascoltando un disco che hai aspettato per buona parte della tua vita? Hai le tue aspettative e sei anche parecchio suscettibile. Se ti piace ti chiederai se ti piace perché è bello o ti piace perché c’è scritto quel nome e non puoi sputare su 35 anni di attesa. E se non dovesse piacerti, ci sarebbe sempre l’alibi che te la sei presa come un amante ferito e abbandonato che non accetta che quei 35 anni siano passati per tutti. Ad aggravare la situazione c’è il circo che dal 1997, anno della pace storica con Ozzy, va avanti con annunci, smentite, gente che va, incidenti, reality show, gente che viene, tribunali, ricadute e, in ultimo, brutte malattie. Tutte cose che possono farti andare di traverso determinati personaggi e indisporti alla valutazione delle loro opere o dubitare delle loro motivazioni.
La conseguenza è che questo cd non è facile da recensire e chi affermerà il contrario lo farà con mendacia. Anche perché non parliamo dell’ultimo gruppetto post qualcosa, ma dei Black Sabbath, e la storia parla da sé. Archiviata la dovuta premessa, 13 sembra essere il meglio che questi signori potessero fare alla loro età. Non sembra fatto per timbrare un cartellino, buttato giù per far rapidamente cassa e affanculo tutti. “13” è un album fatto credendoci, con un grosso impegno da parte di tutti i soggetti coinvolti. E’ da Heaven And Hell (1981), ad esempio, che Geezer non aveva tanta presenza all’interno di un platter (letteralmente strabordante e con un suono potentissimo e godurioso). Era non ricordiamo più da quanto che la voce di Ozzy non suonava così naturale e “secca” e si permette pure di urlare, il tossico maledetto. Era pure un pezzo che Iommi non dava tanta “aria” ai suoi brani, evitando finalmente l’effetto di plumbeo pastone assoluto, come, per intenderci, in The Devil You Know. Ed era un sacco che i signori di cui sopra, nei relativi progetti, non rispolveravano quell’animo zingaro che li contraddistinse nel periodo d’oro. E questo è bene, primo pericolo scampato.
13 ci presenta un poker d’apertura notevole, sia per qualità di songwriting, sia per quanto alcuni riff concorrono a lacerar deretani, sia per linee vocali ispirate e affatto banali, sia per tiro generale. Sfidiamo chiunque a restare impassibili su una Loner, dove i Sabbath ci fanno vedere cosa ne sarebbe degli AC/DC se finiti all’inferno si accorgessero che non è un bel posto, tanto per fare un esempio. Certo, c’è autoreferenzialità, su tutte Zeitgeist con il suo immediato rimando a Planet Caravan, ma senza cadere nell’autoplagio e senza dar mai fastidio, perché il tutto suona brillante e attuale e soprattutto non ci si ferma mai ai bei tempi che furono. Insomma, non si remixa il passato. Secondo pericolo scampato. In 13 ci sono anche brani un pelo meno riusciti, forse Age Of Reason che rimanda troppo allo Iommi fine anni 80 (quello tamarro coi tastieroni disgustosi sotto gli assolo) e di sicuro Live Forever unico vero riempimento. Di sicuro due brani che potevano trovarsi in un disco cantato da Dio e financo da Tony Martin (in Age Of Reason la memoria potrebbe riandare addirittura alle cavalcate con Cozy Powell…), quindi materiale di portata meno devastante. 2 su 8, possiamo pure starci.
In 13 c’è, e questo è il fatto più importante, Damaged Soul, un brano che da solo vale il prezzo del biglietto e che non ha nulla da inviadiare ai grandi classici. Un blues marcio, sporco e muffito. Uno Iommi lercio come non lo si sentiva dal ’71 fra flanger, interventi lisergici e l’armonica. In pratica Satana coperto di fango e merda che ti entra nelle orecchie per bruciarti l’anima. E questo supera le più ottimistiche aspettative. Tirando le somme in 13 ci sono delle cose scontate che funzionano (senza suonare vecchie), delle cose diverse che funzionano (senza suonare forzate) e soprattutto l’unione delle due anime che funziona alla grande, scorre, non annoia e alla fine ne vorresti ancora un pezzetto. Insomma, siamo molto oltre le aspettative.
E se non ci fosse scritto Black Sabbath sulla copertina? In questo caso parleremmo di un disco ottimamente presentato, con una produzione da urlo, una copertina così così, un suono della stramadonna e senza tempo, fra il moderno e il vintage, ma troppo debitore della lezione della band di Birmingham. Vi pare poco? Non sappiamo se questa sia la chiusura di un cerchio o l’inizio di un nuovo percorso. Di sicuro, per rispetto o semplice senso della misura, tutti i gruppi metal, stoner e sabbath-derivati del mondo dovrebbero chinare il capo e dedicare un anno di silenzio come giusto tributo a questi signori a cui devono tutto e che a 65 anni non fanno prigionieri. Sarebbe il minimo. Sarebbe giusto.
Ben tornati a casa, ragazzi.
PS: l’assenza del batterista originale non la noterete. Wilk fa un lavoro degno di questa band: raffinato, ricchissimo di preziosismi, potente, incisivo e sempre al servizio dei brani. Ovvero quello che il sig. “datemi un contratto che possa firmare” non offre più da 30 anni…. Bill chi?
Stefano Di Noi
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