L’altro giorno la mamma mi ha chiesto delucidazioni sul significato di “troll” e “trollare”, e io le ho risposto: “vedi David Bowie e la copertina del suo ultimo disco”. Il caro David torna e trolla, di brutto. Trolla perché, a 10 anni dall’ultima opera in studio, se la esce in scioltezza col disco nuovo, come se non fosse successo nulla. E in realtà scavi un attimo e scopri che ci lavorava da due anni in gran segreto, con elementi come Earl Slick (chitarra su “Station To Station” e tour di “Let’s Dance“, per dire) , Tony Levin e Sterling Campbell. Trolla perché spara fuori il disco e subito dice “zerella che vado in tour…però magari un paio di date…“. Trolla perché pubblica come singolo d’apertura la struggente e malinconica ballata “Where Are We Now?” e il suo video tutto sgangherato: canta di Berlino, luogo mitico per la sua carriera, con una voce rotta dall’età e dall’emozione e te lo immagini così…ormai vecchio e sofferente dietro al microfono…quando poi il singolo non c’entra nulla col resto del disco! Trolla perché non rilascia neanche un’intervista e al suo posto manda…lui. Lui è il leggendario Tony Visconti, l’autore del sound del Duca su parecchi dei sui classici, tra “Space Oddity” e “Scary Monsters“.
Il ritorno di Visconti è la vera vittoria: quello che ne viene fuori è un disco solido, quadrato ma al contempo ricco di sonorità, con le gambe belle piantante nel rock più che nel pop. La secca ed incalzante opener, e le sue chitarrine graffianti, sembrano proprio uscire da “Scary Monsters” (1980); così anche la ben più cupa “Love Is Lost”, col suo evocativo organo in primo piano e il suono del tom tutto storto. La notturna “Dirty Boys” sembra da cabaret, vaudeville, si snoda come un serpente, ricordando l’amico Iggy Pop in esperimenti come “Preliminaries“. Ci sono ovviamente episodi più vicini al pop dell’ultimo Bowie, come il secondo singolo “The Stars Are Out Tonight” e la brit “Valentine’s Day”: rispetto ai pezzi periodo 2000 danno molta più soddisfazione alle orecchie proprio grazie alla ricchezza dei suoni orchestrati da Visconti. Suoni sempre pronti a richiamare, con un riff o con un effetto sulla voce, gli episodi storici della carriera di Bowie. Non mancano richiami al periodo più folle e sperimentale degli anni ’90, come la tirata “If You Can See Me”, e accenni al suo miglior arena-rock degli anni ’80 con “(You Will) Set The World On Fire” (da quanto non si sentiva un Bowie così rock?).
Il disco non è il sound del futuro, non è la nuova imperdibile evoluzione dell’ex Ziggy Stardust…però non è nemmeno mero recupero del passato e auto-plagio per effetto nostalgico: David offre un disco rock intelligente, ricco di spunti e suoni, costruito coi mattoni di una carriera stellare. Casca in qualche filler o pezzo meno ispirato, chiaro, ma rispetto al recente passato è tutto grasso che cola. In una scomoda scala da zero a dieci, dove lo zero è la merda pressata e 10 è l’opera di un artista che ha influenzato milioni di musicisti, segnato un’era ed entrato indelebilmente nella storia dell’arte, le ultime produzioni del Duca (il trittico “Hours/Heathen/Reality“) se la viaggiano sul 5. Questo il 7 lo supera abbondantemente.
Marco Brambilla
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