AM, Arctic Monkeys atto quinto. Bisogna rendergliene atto agli ormai ex ragazzini prodigio: continuano a rinnovare ad ogni loro uscita discografica, ormai la quinta in meno di dieci anni, senza volersi mai fermare due volte sullo stesso punto. Nonostante gli interpreti e il produttore (James Ford) siano praticamente sempre gli stessi, il suono delle scimmie continua la sua inarrestabile evoluzione. R U Mine, singolo uscito ormai un anno fa sembrava voler tracciare una linea precisa, naturale prosecuzione di Suck It And See (soprattutto delle B-side dell’album) e così anche il primo vero singolo dell’album Do I Wanna Know?. Proprio quando la mano di Josh Homme sembrava ormai aver impresso un segno indelebile sui ragazzi di Sheffield, eccoli tirare fuori Why’d You Only Call Me When You’re High, una sorta di citazione/plagio di Dr.Dre con un marcato suono Arctic Monkeys. Esperimento riuscito ed ennessima hit centrata. Finite le anticipazioni AM si presenta come un album piuttosto vario, più di tutti i precedenti.
I richiami presenti sono moltissimi, dal rock anni Cinquanta già ampiamente riproposto nei lavori precedenti ad una dose piuttosto massicia di soul. Questo strano connubio però non stona e anzi riesce ad amalgamarsi molto bene anche grazie allo stile e ai suoni che gli Arctic Monkeys ormai si portano dietro da diversi anni. La sensazione che si ha è proprio quella che in questo lavoro si sia raggiunta la massima maturità per tutta quella ricerca compositiva e di suoni iniziata con Humbug. Oltre ai pezzi già citati, da segnalare sicuramente Arabella, Fireside (con una sezione ritmica da paura), Snap Out Of It e Knee Socks con un finale da brividi. Come da tradizione, chiude l’album il pezzo più intimo. Anche in questo caso la sensazione è che si siano stati usati vecchi stilemi (505), elevati in potenza.
AM è un album maturo che più che una svolta potrebbe rappresentare un punto d’arrivo ma certamente non definitivo. È un lavoro in cui la capacità di reinventarsi e di cavalcare generi diversi mantenendosi sempre estremamente fedeli è pienamente dimostrata, lasciando invariata la capacità di scrivere hit dall’enorme successo. In tutto questo, da annotarlo in coda, va reso il giusto peso a Turner, uno dei migliori songwriter della scuola inglese di inizio secolo e sempre più personaggio/protagonista. Il suo lavoro sulla voce (non certamente una dote di natura senza eguali) si fa sentire raggiungendo sempre maggiori sfumature e reggendo di fatto da sola metà album per intensità e capacità di ricamare melodie eccezionali.
Giuseppe Guidotti