Il nuovo White Lies è un casino. Un bel casino. La band si trova nel periodo di transizione più critico: radici indie, un esordio incensato e glorificato come solo la stampa inglese sa fare, un debutto di successo in patria. Ora, come spesso accade, gli inglesi che li avevano pompati così tanto da farli notare in tutta Europa fanno già finta di non conoscerli. Maledetti.
I ragazzi hanno lavorato sodo, hanno aperto per Kings Of Leon e Coldplay e hanno tanta voglia di dimostrare che non sono un fuoco fatuo. Il problema principale è che pensano di poter fare di tutti gli anni ’80 un fascio. Qualcuno spieghi loro che non funziona esattamente così…Come se entrassero in un bar durante la domenica sportiva e dichiarassero che a loro il calcio italiano piace tutto, e tengono indistintamente a Inter, Milan e Juve.
Con l’inconsapevolezza del giovane inesperto, o del folle, Harry McVeigh e soci prendono quanto è successo musicalmente tra 1980 e 1985 in UK e chi s’è visto s’è visto. La voce di Harry è rimasta ospite a casa dei Joy Division, l’ancora che li lega alle radici più indie e malinconiche del revival new wave…ma la band ha mire più ampie: vuole far ballare i ragazzini in discoteca, vuole i ritornelloni alla radio, vogliono le arene e non i club (visto con chi sono stati in tour…). Eccoli quindi mettere clamorosamente il piede in due scarpe e basare la loro “maturazione” su sintetizzatori, orchestrazioni e citazioni di band diametralmente opposte.
E così inizia l’opener e sembra di stare ancora su “To Lose My Life” (2009), quando improvvisamente parte la rapina di “Theme From Great Cities” dei Simple Minds, crescendo fino a tirare fuori chitarre che stanno totalmente fuori dal senso del sound del disco. In “Strangers” vanno in crisi mistica cercando la via nel pop dei Coldplay, condendolo con synths e orchestrazioni da Goldfrapp e tirando lagne tipo “I’ve got a sense of urgency I have got to make something happen / I held your hand while you were sleeping”. Il tutto per puntare poi sul ritornellone, così come fanno nell’altro singolazzo-a-tutti-i-costi “Bigger Than Us”: un mix talmente audace e senza vergogna che alla fine diventa lo stile marchio di fabbrica della band.
Per un attimo si trova rifugio nell’atmosfera epica – elettronica di “Peace And Quiet”, poi cercano di fare i Tears For Fears ma non si capisce se ci credano davvero o scherzino, tanto è cafone il synth che ci piazzano dentro. “Streetlights” osa accostare un giro di synth in stile Gary Numan alla solita voce alla Ian Curtis, “Turn The Bells” chiama a testimonianza pure i Depeche Mode più industrial e “The Power And The Glory” riesce addirittura a mettere insieme noise, orchestrazioni e gli effetti della Fairlight. La produzione segue di pari passo la loro confusione mentale, con un po’ di drum machine casuali e chitarre inadeguate (vedi “Holy Ghost”), sottolineando quanto il tutto sia forse una ‘bestia’ che i White Lies non sono riusciti a tenere sotto controllo.
Troppa carne al fuoco e intenti poco chiari: ci sono melodia e ritmo, il disco non è certamente un disastro ma il loro ossessivo recupero degli anni ’80 è troppo dispersivo. Se non lo si prende troppo sul serio ci si può anche divertire.
Poteva andare peggio: potevano finire come gli Editors.
Marco Brambilla