L’onda lunga dell’indie-rock britannico l’hanno cavalcata lentamente: grazie a “Velociraptor” sono poi riusciti nel grande salto, arrivando a contendere agli Arctic Monkeys lo scettro di paladini del pop-rock, tra i più ambiti al mondo per la sua gloriosa tradizione che dai Beatles arriva agli Oasis, e dunque alla storia. Mentre altre formazioni come Hives, Interpol e Strokes – sì ok non sono britannici, ma l’ondata è quella – hanno annaspato per non finire alla deriva, i Kasabian hanno intuito le possibilità offerte dall’elettronica e ne hanno fatto pian piano una questione programmatica, ribadita a colpi di grandi hit, il campo dove si misurano i reali valori di una band. È normale che ci siano allora grandi aspettative – e anche ragionevoli timori – all’uscita di “48:13”, nuovo album del quartetto di Leicester, quinto in studio, atto che rivendica la commistione electro-rock come un trade mark.
Distruggere e ricreare: nella open-track “Shiva” l’elettronica lentamente si insinua nei tessuti sporchi del rock, interludio che cuce quanto fatto e quanto accadrà: e ne viene fuori proprio un tipo come “Bumblebee”, in cui tecnologia e incoscienza provocano un binomio esplosivo – visto il ritornello mi aspetterei anche il cappellino al contrario e qualche medaglione. È a questo punto che mi sono venuti in mente i Muse di “The Resistance”: spesso la dipartita dai lidi del rock porta a sonorità che molti, non solo i puristi, percepiscono come commerciali, radio-friendly, con cui è difficile trovarsi a completo agio – la saga continua con “Treat”. Sarà una coincidenza, inoltre, che queste vesti vengano indossate proprio quando il songwriting soffre di un complesso di inferiorità, a conti fatti, con i lavori precedenti? “Stevie” confermerebbe questa impressione: l’attacco fa ben sperare, tanto è in linea con i brani storici, ma il ritornello continua a non convincere.
Sarà bene, tuttavia, non farsi ossessionare dal passato. Se non tutto provoca il disagio indotto dal singolo apri-pista “Eez-eh”, pochi restano i brani apprezzabili nel complesso – “Glass”, forse, novella “Neon Noon”: per il resto buone cose, sì, ma dai Kasabian ci aspettiamo di più.
Questo disco testimonia allora una certa fatica delle linee melodiche, mai realmente entusiasmanti: simili nel loro svolgimento tra i brani, quasi fossero fabbricate in serie; sbiadite al confronto con “Kasabian”, “West Ryder Pauper Lunatic Asylum” e “Velociraptor”. Qualcosa, del resto, doveva pur dirla la semplicità del titolo, che si limita a segnare la durata del disco, o il colore scelto per la cover, un rosa che qualcuno ha definito lisergico – a me invece ricorda il colore delle borse di certe conigliette quattordicenni che incontri nei centri commerciali – e che avrà almeno l’indubbio merito di attirare l’attenzione nei negozi di dischi. Queste lacune sono state arginate nella maniera solita, cioè cercando di colorare i suoni e presentare l’operazione in maniera aggressiva e spregiudicata, mettendo le mani avanti e magari, al contempo, accaparrandosi anche nuove fette di mercato, meno esigenti. And…That’s all folks.
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