C’è una cosa che tende a colpirmi sempre quando ascolto Anderson East, il golden boy del southern soul americano: la sua capacità di non fare nulla di realmente nuovo ma di farlo comunque benissimo, limitandosi a riportare alla luce soltanto antichi splendori dimenticati. “Encore“, il suo secondo album per una major pubblicato il 12 gennaio 2018, replica in parte la formula del disco di debutto “Delilah” del 2015 sempre per la Low Country Sound della Elektra, e toglie per fortuna qualcosa di troppo: la patina della produzione amalgamata a tutti i costi.
A guadagnarci è lui dal punto di vista del suono globale, perché in questo secondo disco gli stilemi di Anderson East e del soul di ispirazione sixties ci sono tutti: ma più raw, più sporchi, più diretti. Insomma, più cuore e pancia che cervello. È il suono a emergere ed è un bene di questi tempi: il merito è di Dave Cobb, produttore di “Encore” che ha paradossalmente lavorato di fino per eliminare l’eccesso di pulizia, e della strepitosissima band che accompagna la voce dell’autore. Funzionano così sia i brani più lenti, ballad di ispirazione Motown che aprono in ritornelli intensissimi, sia i brani più movimentati che attingono molto dalle grandi sezioni di fiati che hanno nutrito l’ossatura del genere. E poi c’è la voce di Anderson East, più matura e graffiante rispetto al debutto: riesce a essere dolce e carezzevole come una coperta sul divano, ma spesso prende la via dell’ironia irresistibile. Un tributo elevatissimo a Tom Waits, Sam & Dave, persino a Solomon Burke con la sabbia in gola: Anderson East non ha paura del confronto, anzi, lo sfida con un certo divertimento. Lo dimostra in “Girlfriend”, dove segue le evoluzioni funk della band senza sbagliare un colpo. Al microfono Anderson East non si risparmia mai, ma non lo fa per mostrare le sue (indubbie) capacità vocali bensì perché sente davvero ciò che canta, guadagnandoci in coinvolgimento emotivo di chi lo ascolta. La riprova è la chiusura dark dell’album con “Cabinet Door”, un twist rispetto all’atmosfera più leggera del disco: East dispiega tutta la sua sofferenza e commuove ad alti livelli.
Le dolenti note stanno da un’altra parte: sebbene piacevolissimo da ascoltare per compagnia e per azzardare duetti casalinghi, è la sostanza di alcune composizioni a deludere un po’. Fedele al genere che sta suonando, Anderson East non pecca di originalità: si parla di amore in molte sfumature, di lontananza da casa, di sentimenti. A un ascolto attento alcuni testi sono un po’ la solita roba trita e ritrita, che tende a penalizzare le buone premesse di questo disco. Ma poteva davvero andare molto peggio.