A due anni dall’esordio solista con “Different Pulses”, arriva “Gold Shadow”, il secondo album di Asaf Avidan uscito il 12 gennaio 2015 su Polydor/Universal.
Dodici tracce riunite sotto l’egida di un titolo ossimorico, che ben si spiega nel carattere decisamente più mosso e luminoso, rispetto al lavoro precedente, della materia musicale con cui l’artista israeliano tratta il tema della perdita e della fine dell’amore: «è un album che parla non solo di una rottura, ma di molto di più» – racconta Asaf. «Si tratta della perdita dell’amore, del fatto che è tutto già scritto, sia l’inizio che la fine e noi dobbiamo solo interpretare un ruolo».
Sono le sonorità Motown dell’opening track “Over My Head” a dominare la prima parte di un album che non rinuncia a sviluppare le molteplici ispirazioni proprie della composita natura musicale dell’artista. Nato a Gerusalemme, radici rumene e un’infanzia parzialmente trascorsa al sole della Jamaica, Asaf Avidan, già a partire dal bridge della seconda traccia “Ode to My Thalamus”, strizza l’occhio alla tradizione Klezmer. Un elemento di colore presente anche in “Different Pulses”, ma qui più elegantemente inserito nel contesto giocando su armonie e arrangiamenti e che farà capolino in pezzi come “Little Parcels Of An Endless Time”, ballatona in levare che si apre nel glorioso chorus marchiato dall’onda quadra del synth, parentesi electro-danzereccia dell’album assieme a “The Jail That Sets You Free”.
Ben diversa, l’atmosfera jazzy alla 007 di “My Tunnels Are Long And Dark These Days” anticipa una title track, che allude a quella “Strange Fruit” consegnata al mondo nell’interpretazione dell’imperitura Billie Holiday. È pezzo di gran classe questa “Gold Shadow”, che per un attimo nel chorus si avvicina fino quasi a toccarlo al Leonard Cohen di “Suzanne”.
Una parentesi intensa, dalla quale Avidan esce con “Let’s Just Call It Fate”. Non è il massimo, ma traghetta l’ascoltatore verso la seconda parte dell’album, votata all’esplorazione degli anni ’60 al di fuori della Motown. Si riparte con i toni tristemente svagati di “These Words You Want To Hear”, brano dalla scrittura beatlesiana, che non rinuncia però al sapore folk della fisarmonica e al carattere sornione dei numerosi coretti. In “A Part Of This” tornano le atmosfere alla “Goldfinger”, ma i toni troppo affettati ne fanno il momento più basso dell’album.
“Bang Bang”, che a dispetto del titolo non ha nulla a che vedere con il brano scritto da Sonny Bono per Cher nel ’66, è un bluesettone con tanto di fiati scratchati, parentesi strumentale orientaleggiante e nel corso del quale Avidan presenta una vocalità inedita, più pulita, grave e profonda. È “The Labyrinth Song” che, a sorpresa, ricalca piuttosto fedelmente la melodia di “Bang Bang (My Baby Shot Me Down)”, ricordando ancora una volta Cohen per l’intima profondità dell’interpretazione. L’intensa ballata folk “Fair Haired Traveller” chiude, infine, un album che ad oggi è senza dubbio il migliore di Asaf Avidan.
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