Beth Hart ha bisogno di sfogarsi con il suo ultimo album ‘Fire On The Floor’, di alleggerire la pressione emotiva subita durante la registrazione del precedente album ‘Better Than Home’ durante il quale il produttore Michael Stevens ha affrontato una malattia terminale, soccombendo, e coprendo l’animo della cantautrice di un manto nero di negatività e sofferenza, di incertezza sulla vita e il suo significato per noi mortali.
Il suo blues, jazz e rock già in partenza emotivo e focoso, si infuoca ulteriormente di questi nervi scoperti e questa anima ferita e insicura, pronta a scattare a ogni stimolo. Artista poliedrica, ha collaborato con mostri sacri della musica mondiale contemporanea come Joe Bonamassa, Jeff Beck e Slash. Una carriera che inizia all’inizio degli anni ’90, conferma la sua attitudine musicale colta e energica, che affonda le sue radici nel blues e nel jazz. Ed è proprio in quest’ultima cornice che inizia ‘Fire On The Floor’, con un jazz ritmico e focoso, in ‘Jazz Man’, adatta ad un club dove il fumo dalle sigarette sale al soffitto, dove passioni si confondono a doppi giochi e segreti sussurrati, dietro urla divertite e sguardi furtivi, conditi dai tintinnii di posate e frusciare di sottovesti.
È più raccolta ‘Love Gangster’ e la sua voce si fa più nasale, quasi a ricordare la magnifica Nina Simone e il suo carico di sensuale sofferenza, in questo accorato lamento amoroso nei confronti di un uomo inarrivabile. ‘Coca Cola’ è sfrontata, una ballata al piano che richiama all’indolenza bollente di Janis Joplin. Quasi sembra di sentire la mai abbastanza rimpianta Amy Winehouse nell’allegra e ritmata ‘Let’s Get Togheter’, mentre si torna a far sanguinare le pareti del cuore con il cantato vibrato che intona ‘Love Is A Lie’. ‘Fat Man’ ha una chitarra elettrica che la posiziona nel genere rock senza dubbio alcuno, e la voce di Beth è potente e convincente soprattutto nel ritornello con tutti i crismi dei classici del genere, sembra quasi di sentire i Rolling Stones.
Con la title track si torna al blues oscuro, trascinato, con piano e atmosfera fumosa e nostalgica, e il tono della Hart ritorna a ricordare la travagliata Nina Simone. ‘Woman You Have Been Dreaming Of’ ha un bellissimo giro di piano che la rende delicatissima, e Beth danza con la sua voce creando una ballata di una grazia assoluta, intima e calda. Altro jazz classico, acceso e tarantolato in ‘Baby Shot Me Down’, potenziato da schiaffi di chitarra elettrica che gioca con il piano, fino a quando Beth sfodera dei ‘Babe!’ alla Robert Plant. Un pezzo eccezionale, camaleontico e pieno di vita. ‘Good Day To Cry’ è una ballata classica, il vibrato della voce di Beth ricorda il folk emozionale di Tracy Chapman esplodendo nella preghiera amorosa di sofferenza e privazione (‘Stay with me baby!’). ‘Picture in A Frame’ non c’entra nulla con il bellissimo pezzo di Tom Waits, ma è comunque una bella ballata che si attesta sul rock classico, meno blueseggiante delle altre ballate, ma sempre intensa e piacevole. ‘No Place Like Home’ racchiude, come se fosse stato evocato dal titolo della canzone precedente, il fantasma di Tom Waits. È cruda e essenziale, voce e piano, trasmette l’incompiutezza di una vita passata per strada, senza porto sicuro. Non c’è nessun posto come casa propria.
Beth Hart confeziona uno scrigno di tesori, regala un ascolto di classe superiore, che non sta immobile bensì nasconde mille sorprese nelle sue canzoni, che emoziona con le sue melodie e le sue tematiche, con la sua tecnica eccellente e le sue atmosfere accattivanti. Pop, ma con un vestito e un invito per i salotti della musica che conta.