Dopo il parto gemellare di “Opposites” (2013), i Biffy Clyro hanno dovuto ricalcolare la propria rotta, che li ha guidati fino alla produzione del settimo album, “Ellipsis”, un disco compatto che incanala tutta la rabbia sonora e il peso emotivo in 38 minuti di ascolto (si arriva ai 46 nella Deluxe Edition).
La risata jokeriana di Simon Neil seguita dalle parole “Record this?!” è il primo suono a penetrare nell’orecchio dell’ascoltatore. Quel tono di incredulità nella voce del frontman e principale compositore serve quasi a fissare le coordinate: non è quello che vi aspettate, ci avverte lui, un ammonimento reso superfluo dalla stessa natura della sua band, che intenzionalmente non ha mai seguito un percorso lineare, cercando piuttosto di evolversi in continuazione svoltando a ogni crocevia, pur mantenendo intatta quell’essenza che, all’ascolto, permetta di affermare “questo è un disco dei Biffy“. Su “Ellipsis” il salto è ancor più evidente: “fucked up music” sì, come la definirebbero loro stessi, ma qui non sono i cambi di tempo schizofrenici a deviare ogni tipo di autocontrollo come nella prima trilogia, niente vezzi orchestrali e via l’impatto epico e cinematografico degli ultimi lavori. Resta vitale e centrale, e allunga i suoi tentacoli ad avvolgere tutto, una voglia di sperimentazione e contaminazione tra generi, mai prima d’ora così enfatizzata.
Dalla dichiarata ispirazione all’hip hop nell’attitude (A$AP Rocky è il nome più citato), le canzoni si inerpicano sul groove reggae, come la complessa e splendida “Herex”; scherzano con il pop più blando vestendolo di nuovi colori sgargianti e attraenti, come in “Friends and Enemies”; indugiano nel country come in “Small Wishes”, una ballata dedicata alla Scozia che si stacca musicalmente e tematicamente dal contesto, e ci regala tra le altre cose versi memorabili come “The lizard shit and held it under our nostrils” (“La lucertola ha cagato e ce l’ha tenuta sotto le narici“).
I tre scozzesi si allontanano dal loro deus ex machina “tre ragazzi che suonano in una stanza” per esplorare fino in fondo le possibilità offerte dallo studio di registrazione: si specchiano dunque nel producer Rich Costey, che restituisce di riflesso quello che parrebbe essere il primo pezzo di una vera e propria “trilogia in studio” per i Biffy, in contrapposizione alle due precedenti.
A pagare lo scotto di tanta varietà e forse del rinnovamento è la coesione del disco, unico vero neo di un lavoro altrimenti ottimo. Le undici (o tredici nella Deluxe) tracce sembrano isole di un arcipelago destinate a non toccarsi se non per volontà del suo ascoltatore, intenzionato a lasciarsi traghettare dall’una all’altra dal vento di curiosità, eppure in grado di esistere da sole con la stessa forza e vivere ognuna come potenziale singolo.
Tematicamente, “Ellipsis” è uno degli album più personali mai composti da Neil, un passo ulteriore di una scrittura da sempre introspettiva e profonda, che qui colpisce l’ascoltatore con una schiettezza e un’apertura quasi spiazzante. I problemi di depressione dell’artista dell’Ayrshire, che ne hanno affaticato l’esistenza già durante e nel periodo posteriore al grande tour mondiale di “Opposites”, sono il punto di partenza da cui iniziano a fluire i testi delle canzoni.
L’intensità raggiunge il suo picco, quasi per natura, nella coppia di immancabili ballate, “Medicine” e “Re-Arrange”, e se la prima è quasi pittoresca nel ritratto di una sconfitta e della necessità fisica di una cura, la seconda è un commovente brano d’amore dedicato alla moglie, un ringraziamento per l’aver scelto, giorno dopo giorno, di voler superare le difficoltà insieme. È la figura animalesca del lupo che rappresenta l’altro lato della medaglia, il desiderio e il bisogno di rivalsa, la lotta per non lasciarsi andare, la rabbia. Un’energia che raggiunge il suo climax in “On a Bang”, dove un lavoro da manuale dietro le pelli si accompagna al grido che crepa il cielo “Now you know better, why can’t you fucking do better?!“. Una metafora che si perpetua in più brani, come “Wolves of Winter”, “Animal Style” (“Why d’you waste your time with me, I’m just an animal. Can you realise my head’s a fucking carnival“), “Howl”, che finanche nei cori si sbizzarisce nell’imitare l’ululato di un lupo (e in cui figura anche lo zampino di Gary Lightbody).
Nota di merito va riservata a “In the Name of the Wee Man”, “relegata” a Bonus Track del disco probabilmente per la sua natura meno lineare, ma che più di tutte si avvicina all’incarnazione dei Biffy di qualche anno fa. Una sorta di riscatto anche per i fan delusi dalla seconda trilogia, indispettiti dal cambiamento e dal lento spostamento dal prog. Ma d’altro canto, lo scopo dell’artista non si riduce a mero intrattenimento del pubblico, ma si confronta con il dovere quasi mandatorio di esprimersi nel modo più onesto e vicino a se stesso possibile, “perché con i nostri album ci dovremo convivere per il resto delle nostre vite“, appuntano i tre.
Ed è proprio questo che è “Ellipsis”: un album diretto, che rispecchia la personalità della band, in cui le paure vengono ricacciate nel buio cui appartengono, esorcizzate da ritornelli che entrano in testa al primo ascolto (un’indubbia qualità storica dei Nostri), e tramutate in una vittoria personale e artistica. Un capitolo che racconta la storia di una rinascita (illustrata egregiamente nell’artwork), una storia che parla di rabbia e dolore e lo fa con un ammirevole piglio di divertimento, in sostanza una storia di rock. “I gave my heart to rock and roll, what is your contribution?”