Non solo la vita fa schifo, ma quello che c’è dopo è ancora peggio: ecco cosa sembrano suggerire i Black Breath con il loro terzo full-length, dal titolo più che iconico “Slaves Beyond Death”. La band di base a Seattle ha sfornato un’opera che seppure legata a quell’Entombedcore del quale si sono fatti portavoce negli anni (per chi non lo sapesse, un hardcore fortemente influenzato dal sound swedish death metal di band come i Dismember e gli Entombed appunto), prende le sue distanze con una personalità forte, unica e imprevedibile. I pezzi sono microcosmi a sé stanti, in cui non sai mai cosa succederà, perché da una sfuriata speed si può finire senza preavviso nei meandri di una ballad all’arsenico.
Partendo dai riff malati della opener “Pleasure, Pain, Disease”, si passa senza soluzione di continuità al martellare frenetico della batteria nella title track, una peculiarità che ha fatto la fortuna dei Black Breath nel corso dei loro dieci anni di attività. “Reaping Flesh” riesce ad accoppiare le urla quasi black di Neil McAdams a una melodia malsana, in un delirio da incubo, mentre la malinconia inziale di “Seed of Cain” diventa con il trascorrere dei minuti subdola e letale come una neurotossina, che non può che dare il la a un’agonia al cardiopalma. Il ritmo la fa da padrone ancora una volta in “A Place of Insane Cruelty”, ma la vera ciliegina sulla torta è lo strumentale “Chains of the Afterlife”: niente di più depravato e tecnicamente ambizioso.
“Slaves Beyond Death”, con i suoi ritmi schizofrenici e la sua incredibile varietà, è un ascolto tutt’altro che facile, i percorsi fuori pista che la band intraprende sono potenzialmente infiniti e non sempre si è pronti a incassare certi pugni nello stomaco. Ma una volta che entra in circolo, non ci si può fare nulla, come un veleno per il quale non è stato ancora trovato l’antidoto.