Il problema dei The Black Queen è che a causa del passato del loro componente più noto (Greg Puciato, frontman dei Dillinger Escape Plan) rischierà di rimanere circoscritto al seguito della sua vecchia band. E non è un timore, ma una realtà: mi capitò di vederli live nel 2016 a New York City e al Rough Trade di Brooklyn c’erano più tshirt di gruppi hardcore punk e metal che di gruppi synth pop.
Ed è un peccato perché “Infinite games”, secondo capitolo dopo il fortunato debutto “Fever daydream”, piazza il trio come uno dei nomi nuovi più validi nel vasto cortile della musica elettronica. Rispetto al debutto, manca il singolo di grido (non c’è una “Secret scream”, per dire) ma in compenso i dieci pezzi mantengono un livello di qualità alto e costante. La durata dei pezzi si fa mediamente più lunga e questo porta ad atmosfere synth pop più dilatate e sognanti ma mai banali, come nella lunga “Impossible condition” che non annoia nella sua durata vicina ai sette minuti. I pochi pezzi brevi servono come sorta di introduzione ad un pezzo lungo, ed è ciò che avviene con il trio conclusivo “100 to zero” / “Porcelain veins” / “One edge of two”, con l’ultimo pezzo che chiude il disco con un ritornello memorabile.
“Infinite games”, come tutta la discografia dei The Black Queen finora, è un viaggio nella musica anni Ottanta fatta di pane e sintetizzatori: fan di Depeche Mode e primissimi Nine Inch Nails troveranno pane per i loro denti in canzoni come “Thrown into the dark” e “Lies about you”, ma anche in episodi più da dancefloor “di nicchia” come “Spatial boundaries”. Sì, i The Black Queen sono quella ventata di novità con occhio alla nostalgia che però non suona come ruffianeria. Ma con quell’ingombrante ombra che renderà molto difficile, se non impossibile, un esplosione del gruppo al di fuori dei confini dettati dal passato.