Brandon Flowers si prende una pausa dalla pausa che si sono presi i suoi The Killers e pubblica “The Desired Effect”, il suo secondo album in studio da solista, questa volta prodotto da Ariel Rechtshaid (Vampire Weekend, Haim, Charli XCX).
Per un recensore, cercare di interpretare gli intenti di un disco intimo è già di per sé un rischio, interpretarne poi il titolo è quasi un autogol annunciato. Eppure l’idea è che questo fantomatico “effetto desiderato” non sia tanto quello prodotto su di noi che ascoltiamo, quanto sull’autore stesso.
Chiunque conosca le piccole divergenze nate all’interno dei The Killers, quelle che hanno alimentato le periodiche false notizie di possibili rotture, saprà che prima di essere un professionista Brandon è un music-addicted. Uno di quelli che proprio non riescono a stare con le mani in mano. In tal senso questo secondo capitolo della sua carriera solista, proprio come il primo, ma ancor più del primo, è una necessità. E visto che evidentemente “Flamingo” non aveva soddisfatto in pieno neanche il suo creatore (di fatto era un po’ come sentire delle b-sides dei Killers, per quanto belle), al secondo tentativo l’imperativo è stato quello di seguire gli istinti.
Brandon ama il pop, non l’ha mai nascosto, così come ama gli anni ‘80, e pare non abbia mai nascosto neanche questo. Allora a quel seminale periodo ha voluto offrire un ottimo tributo, destreggiandosi con personalità tra synth, riverberi e sample (da manuale il campionamento di “Smalltown boy” dei Bronski Beat in “I Can Change”).
Non manca un po’ di rockabilly in “Diggin’ Up The Heart”, ma è l’elettropop a farla da padrone e a rievocare con magnifica precisione scene che l’immaginario collettivo elabora con nostalgia, anche laddove non siano state vissute.
Non viene nemmeno perso il focus su quelle ballate romantiche che già nell’ultimo album dei The Killers – “Battle Born” – avevano trovato ampio spazio. Quest’ultimo è il caso di “Between Me And You”, un pezzo che rinfresca la memoria su quanto fascino e quanto carattere il musicista di Las Vegas abbia sempre saputo infondere nei propri lavori.
Sono tanti i motivi per ricordare questo disco con piacere negli anni a venire. Brani come “Can’t Deny My Love” e “Lonely Town” mostrano come non si tratti solo di un disco filler, fatto giusto per non perdere il ritmo o per sfogare certe pulsioni tenute a freno nel progetto primario. Non è neanche mero esercizio di stile. Si tratta sì di una necessità personale, ma anche e soprattutto di un’importante espressione artistica di uno dei più sfaccettati autori del pop rock contemporaneo.