1
Car Bomb – Meta
Una meravigliosa accozzaglia di caos. Non mi vengono in mente altri termini per descrivere al meglio il terzo disco dei newyorchesi Car Bomb. In “Meta”, i Nostri portano l’innegabile influenza di stampo Dillingerescaperiano (e Meshuggah-iano volendo) al livello successivo di violenza, energia e delirio. Uno dei punti più alti dell’opera è senza dubbio “The Oppressor”, una sorta di ballad mathcore all’arsenico. E per finire, ci pensa “Infinite Sun” a racchiudere in sé tutto il disco nella sua folle varietà. Un’esperienza da ripetere.
2
I Built the Sky – The Sky Is Not the Limit
A me ha fatto prendere bene fin da subito il fatto che il titolo di ogni pezzo di “The Sky Is Not the Limit” fosse il nome scientifico di diverse tipologie di nuvole. E l’idea che trasmettono questi strumentali è proprio quella di impalpabile leggerezza. Ma anche di incredibile solidità dal punto di vista della complessità della struttura. Se poi contiamo che dietro il progetto I Built the Sky si cela solo un chitarrista, c’è davvero da leccarsi i baffi. “Humilis”, uno dei brani migliori del disco, si avvicina pericolosamente ai Periphery, e lo fa da dio. Lasciarsi trasportare senza paura dalla positività e dalla vitalità riff progcore di I Bult the Sky è quanto di meglio vi possa suggerire questa settimana.
3
Seasons After – Manifesto
Il terzo full-length dei Seasons After dimostra in primo luogo un songwriting maturo e pregno di emozione, il che di questi tempi non è per nulla banale. Altra caratteristica positiva, che gioca a favore della band di base in Kansas e che aiuta a distinguerli nel mare magnum della scena attuale, è la capacità di far virare il loro metalcore verso sonorità più hard rock (come dimostrano il singolo “Fighter” e la suggestiva ballad “Falling”).
4
Conspire – The Scenic Route
Passione, intensità, onestà, energia, lyrics motivazionali e hopecore: il paragone tra i Conspire e i Being As On Ocean sorge più che spontaneo. “The Scenic Route”, debutto della band made in Florida, è quanto di più apprezzabile esista per i fan dei BAAO e del loro particolare modo di approcciarsi al (melodic) metalcore, vi basti ascoltare tracce come “1971” o “Thousand Oaks” per farvene subito un’idea. Ma se siete allergici all’effimero ottimismo tipico di queste band, non prendetevi neanche il disturbo di cliccare “Play”.
5
Animals As Leaders – The Madness of Many
Giunti al quarto album, gli Animals As Leaders decidono di lasciare quasi del tutto da parte il djent e immergersi completamente nel progressive. I flirt con l’avant-jazz di The Brain Dance sono all’opposto dell’impatto di Cognitive Contortions e Private Visions of the World. La singhiozzante e trascinante Arithmophobia apre un album che spinge ancora più in là la ricerca del tecnicismo e della profondità esecutiva, evitando di puntare su riff riconoscibili e momenti maggiormente immediati. Tosin Abasi, Javier Reyes e Matt Garstka possono oramai permettersi ogni cosa, anche di sfidare la ‘vecchia’ guardia e farla incazzare. The Madness Of Many rimane comunque un lavoro assurdo, a cui dedicare il tempo necessario per apprezzarne fino in fondo le (moltissime) sfaccettature. (j.c.)
6
Wovenwar – Honor Is Dead
Ispessiscono il muro del suono e aumentano i growl del sempre più grosso Shane Blay (sarà che aumentare la massa stando vicino agli As I Lay Dying è normale, basta non esagerare, Lambesis insegna…). Honor Is Dead è molto più diretto e sbilanciato sul metalcore melodico tradizionale rispetto all’esordio. Bene per i fan del metallone americano moderno, meno per chi si aspettava qualcosa di più ricercato e vario. Un probabile album di passaggio che potrebbe aiutare i Nostri a crescere in un underground pieno zeppo di uscite simili e band con poca personalità. Cosa che di certo non manca ai Wovenwar. (j.c.)
7
In Flames – Battles
Ormai sono anni che i fan degli In Flames si dividono tra chi spara a zero sui loro (ex) beniamini e su chi continua a supportarli/sopportarli nonostante tutto. E anche “Battles” ha scatenato il putiferio, ma per quanto sia un album studiato per essere il più “lowprofile” e innocuo possibile, mi sento di difenderlo, almeno in parte. Le melodie orecchiabili ci sono, fin dalla opener “Drained” ai singoli tipo “The End”, ma manca il riff potente, il mordente che faccia la differenza. Insomma, non ci sarebbe nulla di poi così male, ma è musica per ragazzini emo suonata da ultraquarantenni che dovrebbero fare (melodic) death metal. “Through My Eyes” è sicuramente il pezzo più In Flames della dodicesima fatica della band svedese, e si ascolta che è un piacere. Ma tranquilli, ci pensa la stucchevole appiccichevolezza di “Here Until Forever” a rovinare tutto.
8
Devilment – II – The Mephisto Waltzes
A Dani Filth non piace stare con le mani in mano, e quando non sa cosa fare si diverte a giocare con i Devilment. Ma attenzione detrattori: i Devilment non sono la brutta copia dei Cradle of Filth. Se la costante, ovviamente, è la voce del buon Dani, si capisce dalla opener “Judas Stein” e da pezzi muscolari e al contempo catchy come “Under the Thunder” che l’asticella è ben piazzata in alto, soprattutto per la parte strumentale e le avvolgenti atmosfere gotiche. Anche se l’effetto déjà-vu è dietro l’angolo.
9
Annisokay – Devil May Care
I tedesconi Annisokay hanno alle spalle un paio di album e un discreto bagaglio di esperienza. “Devil May Care” quindi non può far altro che filare liscio come l’olio. Si inizia con “Loud”, vera e propria dichiarazione di intenti della band: downtuning, breakdown e tutto l’arsenale completo del metalcore più attuale sono lì pronti a far la gioia dei fan. “Smile”, con l’apporto di Marcus Bridge dei Northlane, acquisisce uno spessore maggiore rispetto al resto dei pezzi. “Blind Lane” sfocia nei territori del pop, ma nel complesso “Devil May Care” non dice nulla di trascendentale e non traccia nuove strade. Un bel giocattolino quindi, ma nulla di più.
10
Superjoint – Caught Up in the Gears of Application
Nessuno ha ancora capito perché a dodici anni dal secondo album dei SuperjointRitual, Phil Anselmo e Jimmy Bower (chitarrista nei Down), abbiano deciso di riesumare il progetto sotto il moniker tranciato a metà di “Superjoint”. Detto questo, “Caught Up in the Gears of Application” va giù liscio come un bicchiere d’acqua fresca, senza lasciare tracce né retrogusto. Niente di niente. A poco valgono gli strepiti del vocalist e l’hardcore oldschool filtrato dal sapore fangoso della scena metal di New Orleans da cui lo stesso Anselmo proviene.