David Bowie – Blackstar

david-bowie-blackstar-recensione

Blackstar di David Bowie è uno degli album in uscita più importanti del 2016. A molti è piaciuto, ad altri no. Sicuri che quasi tutti oramai si saranno fatti un’idea sul nuovo disco del Duca, diciamo la nostra con calma e senza fretta. Due posizioni contrapposte che affrontano il medesimo tema. Due posizioni che, di base, venerano l’artista a prescindere ma che si sono divise durante l’analisi del lavoro.

Perchè mi è piaciuto

(di Luca Garrò)
Il Duca Bianco ha dovuto attingere a tutta la propria creatività per ripetere l’effetto bomba di The Next Day. Come ampiamente dimostrato dalla reazione del pubblico al lancio di Lazarus, ancora una volta Bowie ha centrato il bersaglio. E pensare che per farlo sarebbero bastate una decina di canzoni ultra classiche, perché tanto nessuno si sarebbe aspettato chissà quale colpo di coda da un artista di quasi settant’anni, che nel corso della propria carriera aveva già cambiato pelle decine di volte.

Pensare oggi a The Next Day, alla luce di un ascolto anche solo approssimativo di Blackstar, fa quasi sorridere: se là i pezzi erano di classe assolutamente superiore, ma sostanzialmente in linea con il Bowie degli anni duemila, qui il discorso si fa molto più complesso. Con queste tracce, l’ex Ziggy Stardust dimostra semplicemente di essere l’artista più influente ed eclettico della propria generazione: se, infatti, talvolta il suo genio è scaturito dall’influenza di amici fidati come Marc Bolan, Lou Reed o Iggy Pop, è altrettanto lapalissiano che nessuno sia stato in grado di influenzare così tanti artisti, in così tanti settori, come Bowie. Se pensiamo che solo negli anni settanta, nel giro di un lustro, prima portò le intuizioni dei T Rex alle masse, poi salvò la carriera di Lou Reed, Mott The Hoople e Iggy Pop e, infine, insieme a Brian Eno riscrisse per sempre le regole della musica popolare, non stupisce pensare a cambiamenti così repentini.

Tuttavia, è lecito rimanere sconvolti quando a farlo non è più un giovane artista all’apice della creatività, ma un uomo giunto ormai alla terza età. Questa volta, il nostro si è invaghito del jazz e, a dirla tutta, i più attenti se n’erano ampiamente accorti già all’ascolto di Sue (Or In The Season Of Crime), contenuta nella raccolta Nothing Has Changed, uscita lo scorso anno. Va subito detto che la versione di quel brano contenuta in Blackstar è molto differente dall’originale, così come Tis A Pity She Was A Whore, anch’essa trasformata in una cavalcata elettrica più coerente col mood del disco.

L’album è così fuori dai canoni classici, che ti stupisci di vedere il nome di Tony Visconti alla produzione, mentre sorprende meno la presenza di Mr LCD Soundsystem James Murphy o del talentuoso sassofonista californiano Donny McCaslin, vero motore del disco insieme alla batteria impazzita e fuori dagli schemi del giovane Mark Guiliana. Piccolo cenno per Lazarus, che paga lo scotto dell’uscita post title track, ma che con gli ascolti si trasforma in una gemma preziosa: una tipica ballata alla Bowie impreziosita da una chitarra che pare uscita dal Neil Young della colonna sonora di Dead Man. Insomma, Blackstar probabilmente è una buona fotografia di quello che è oggi David Bowie: difficilmente un suggerimento per intuirne il futuro.

Perchè non mi è piaciuto

(di Mathias Marchioni)
Blackstar è uno dei più brutti album registrati da David Bowie nella sua ormai cinquantennale carriera. Blackstar sarà uno dei suoi più grandi successi. Giustamente, Bowie è leggenda per tutto quanto dimostrato durante la sua irripetibile carriera. Ma i dischi vanno comunque analizzati, ergo proviamo comunque ad argomentare quella che in molti definiranno una bestemmia.

Non è la prima volta che il duca bianco sbaglia un album -vedere alla voce Hours-, ne ha portati alle stampe ventotto (il 90% dei quali sono dei veri e propri capolavori), ed è fisiologico.

In secondo luogo, ripresentarsi dopo dieci anni di silenzio con un capolavoro come “The Next Day”, non ha per niente aiutato “Blackstar”, che a soli tre anni dall’uscita del suo predecessore non ha potuto reggere il confronto. In parte ci prova con Sue e Dollar Days e in parte ci riesce con Lazarus che sicuramente sarà il singolo per il quale verrà ricordato: canzone tanto inquietante (e il video non poteva essere più azzeccato) quanto davvero di notevole impatto, con atmosfere sinistre che mettono in risalto le migliori doti canore e interpretative di Bowie…ma poi ci fermiamo.

Le altre quattro tracce di Blackstar sono giochi di stile, spesso troppo lunghe e con parti a tratti fastidiose, perle di autoreferenzialità nate dal desiderio dell’artista di reinterpretare a modo suo un certo tipo di sonorità (forse jazz?) che in questo periodo evidentemente apprezza. Non si può parlare di sperimentazione, non si può parlare di un genere in particolare, il tutto si regge esclusivamente sulla voce sublime di Bowie, ma viene costantemente messo in ombra da parti strumentali tutt’altro che coerenti o azzeccate.

Lascia un commento