L’ atteso ritorno di Beyoncé arriva con un disco ben costruito, ma che non travolge abbastanza. Beyoncé è sempre la solita, affascinante creatura: la sua voce non delude e la sua aura è immutata. E’ un fenomeno mondiale, non provoca scandali o controversie, è la diva perfetta formato famiglia.
L’ album è confezionato, ovviamente, con tutti i crismi del caso: la solita parata di scrittori e produttori (da Tricky a Kanye West…escluso misteriosamente Jay-Z) ha creato un prodotto più omogeneo, evitando una divisione netta tra RnB e pop come nel precedente “I Am…Sasha Fierce” (una delle critiche più accese a un disco comunque stratosferico). Nell’ arco delle 12 tracce, la bella americana mischia tutti i suoi stili preferiti, cercando ogni volta di lasciare la propria impronta. Tutto è studiato per porre sempre in evidenza la sua voce, naturalmente, ma le perplessità non mancano. Perplessità che nascono soprattutto per la mancanza di singoli al passo coi successi del passato, per certi suoni non sempre all’altezza e per l’ ordine dei pezzi discutibile. I lenti sono tutti all’ inizio, mentre il finale è affidato alle tracce più ritmate. Si parte con l’ RnB di “1+1” dove la voce già svetta ma la parte strumentale è un po’ anonima e ripetitiva, seguita dalle calde percussioni che spingono “I Care”. Un altro pezzo intenso con “I Miss You”, dove però la base è più moderna e usa suoni troppo inflazionati. Finalmente c’è una scossa con “Best Thing I Ever Had”, dove Beyoncé ruggisce alla Whitney Houston. Spezzatura nel mezzo con l’unico brano hip-hop del disco: “Party”, ospite Andrè 3000, è un brano assolutamente anonimo che invece di far decollare il disco lo affossa. La parte centrale soffre con due episodi sotto la media (“Rather Die Young” e “Love On Top” con dei suoni vecchi già nel ‘92) e solo il buon pop d’atmosfera di “Start Over” a cercare di tenere su la baracca. Il finale si apre con “Countdown” e “End Of Time”, puro pop ‘percussivo’ alla Beyoncé alla “Single Ladies” che pesca anche dal passato nelle Destiny’s Child. “I Was Here”, ultimo lento del disco, è anche uno dei pezzi migliori: voce vibrante che fa sognare e suoni moderni usati a dovere, un apice che avrebbe chiuso il disco con un climax.
Chiusura invece affidata al singolo tamarro “Run The World”: non terribile ma niente di sconvolgente. La diva non aveva certo bisogno di consacrazioni, ma ci aspettavamo molto di più.
Marco Brambilla
si, che non hai capito un cazzo. ma proprio un cazzo.
Fa sempre piacere ricevere critiche stimolanti ed articolate.
la prossima volta scrivi qualcosa di stimolante e articolato, e avrai una critica stimolante e articolata.
Illuminaci te allora su questo disco, donaci la conoscenza 🙂