Damien Rice – My Favourite Faded Fantasy

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Che fine ha fatto Damien Rice? Probabilmente sarà capitato anche a voi di tanto in tanto negli ultimi otto anni di finire sull’argomento nel tedio di una stanca birretta domenicale. Beh, s’è preso il suo tempo il cantautore e polistrumentista irlandese, in fuga dal successo dei suoi primi due album, “O” (2002) e “9” (2006), dalla rottura professionale e personale con Lisa Hannigan o forse, molto più complicatamente, da se stesso. Ma alla fine rieccolo con “My Favourite Faded Fantasy” (3 novembre 2014, Atlantic).

Le aspettative per il ritorno di un artista capace di conquistare il successo internazionale, nonché una solidissima fanbase, nell’arco di due album realizzati con pochi e semplici ingredienti, tra cui un songwriting di eccezionale fattura ed una comunicatività diretta, quanto delicata, erano ovviamente altissime. Tuttavia, “My Favourite Faded Fantasy”, prodotto niente meno che da Rick Rubin, e composto da 8 brani, tanti quanti gli anni trascorsi lontano dalle scene, per un totale di 50 minuti, risulta inconsistente, poco a fuoco e fin troppo ambizioso per arrangiamenti e durata dei pezzi.

Non si può dire che Damien in questi otto anni non abbia cercato soluzioni nuove, ma si può dubitare che funzionino quanto la semplice e genuina ricetta a cui ci ha abituati. Già a partire dall’apertura con la title track Rice propone una vocalità meno solida rispetto al passato, muovendosi qui in particolare in una tessitura insolitamente acuta, lontano ricordo di rarefatte atmosfere alla Jeff Buckley, e spingendosi di sovente in territori dissonanti, al limite della stonatura. Anche la struttura dei pezzi appare più studiata e composita, fino agli eccessi di “It Takes a Lot To Know a Man” (9 minuti e 33 secondi, di tira e molla tra i vuoti del piano solo e i tappetoni d’archi che riempiono tutti i buchi lasciati dal fraseggio zoppicante del cantato), ma finisce con l’abusare del crescendo, prevedibilmente impiegato, fino allo sfinimento, in quasi tutti i pezzi dell’album, tra cui “The Greatest Bastard” e “Colour Me In”, due dei tre brani che assieme a “I Don’t Want To Change You” lasciano intravedere un barlume di luce e del Damien Rice di “O” e “9”. La sontuosità degli arrangiamenti, infine, pare prevalere sull’invenzione melodica anche in brani in cui appare evidente il tentativo del cantautore di rimanere fedele a se stesso, come in “The Box”, il cui attacco ci fa sognare il glorioso sviluppo di una “The Blower’s Daughter”, per lasciarci poi a bocca asciutta, sfociando, anzi, in un triste ritornello dal sapore inspiegabilmente sanremese. Dopo gli 8 e passa minuti senza lode e senza infamia della ballata irlandese “Trusty and True”, anche il brano di chiusura “Long Long Way”, uno dei pezzi se vogliamo più riusciti dell’album, finisce per cadere nel già sentito con quello che ha tutto l’aspetto di una citazione della meravigliosa “Cold Water”.

Insomma, spiace dirlo, ma dimentichiamoci la poesia, l’intensità e la consistenza melodica dei “O” e “9”: qui Rice cerca di fare con la testa quello che nei primi due lavori gli riusciva col cuore. Mancano l’urgenza e l’immediatezza dei lavori precedenti in questa “sbiadita fantasia” del cantautore irlandese, che finisce con l’apparire nel migliore dei casi una caricatura di se stesso.

Che fine ha fatto Damien Rice?

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