Ad appena un anno da “Relapse” – album che ha segnato il suo ritorno sulla scena ma che ora lui stesso, nel nuovo singolo “Not Afraid”, bolla come mediocre – Eminem ci riprova con “Recovery”, disco che dovrebbe segnare un punto di svolta e di cambiamento nella carriera dell’istrionico Marshall Mathers III.
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L’obiettivo, però, viene centrato solo in parte: Slim Shady si riconferma uno dei rapper più talentuosi degli Stati Uniti in quanto a capacità di rima e di scrittura, l’album è ben prodotto e pieno di beat e ritornelli accattivanti, due o tre episodi sono notevoli, e tuttavia il disco non sembra cambiare più di tanto le carte in tavola rispetto al passato, mostrando anzi meno smalto rispetto ai primi lavori del rapper viso pallido.
In “Recovery” Eminem si dichiara intenzionato a mostrarsi per quello che è veramente, ma nel corso delle diciassette (forse un po’ troppe) canzoni che compongono l’album, continua ad alternare la maschera del pagliaccio, dell’arrabbiato, del poeta e del sopravvissuto senza riuscire troppo a decidersi, per quanto sembri prevalere, di tanto in tanto, il versante introspettivo. E forse la verità è che Eminem è tutte queste cose contemporaneamente. Solo che, a differenza che in “Marshall Mathers” o “The Eminem Show”, il gioco sembra funzionare a singhiozzo.
Detto ciò, “Recovery” rimane un buon disco, orecchiabile e divertente. I sample scelti rivelano spesso piacevoli sorprese (difficile non sorridere sentendo l’inno dance tamarro degli anni ’90 “What is Love?” di Haddaway trasformato nella base di “No Love”, brano in cui Eminem duetta con Lil Wayne), rock ed elettronica si susseguono e si combinano dando vita a un tappeto sonoro gradevole e Marshall rivela sempre una certa originalità rispetto alla media della produzione rap americana. I featuring di Pink (“Won’t Back Down”) e Rihanna (“Love the Way You Lie”) non fanno grande differenza. Ma Eminem è forse davvero giunto a un punto di svolta: da qui in poi, o farà qualcosa di più – e il talento non gli manca – o sarà costretto a rimanere per sempre il “solito” Marshall Mathers.
Marco Agustoni