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Sean Combs. Puff Daddy. P Diddy. Diddy-Dirty Money. Diddyedaibbasta, cambiare nome non cambierà la qualità della tua musica. Per la sua ultima fatica, Sean “come lo vogliamo chiamare” Combs chiama in causa quello che lui definisce un vero e proprio gruppo, i Diddy-Dirty Money, formati oltre che dal leader, dalle cantanti Dawn Richards e Kalenna Harper. “Last Train to Paris”, a livello di forze dispiegate, è uno dei dischi più forti dell’anno. E infatti il risultato non è un album di quelli bruttini e mediocri che passano inosservati. Il risultato è un clamoroso, roboante fallimento, di quelli che si fanno notare eccome.
Per “Last Train”, Mr. Combs ha scelto l’approccio del “mettiamocene più”. Ci sono abbastanza produttori? No, ne voglio di più. Ci sono abbastanza ospiti? Ehi, stiamo scherzando? Ne voglio di più! Ci sono abbastanza synth e campionamenti? Di più-ù, ho detto che ne voglio di più! Se no vi licenzio tutti quanti, dal primo all’ultimo, poi mi compro le vostre famiglie e me le metto in giardino come sculture viventi.
Il concetto è quello del “panino ignorante”, dove tra due semplici fette di pane cerchi di stipare più ingredienti possibile, nella convinzione che ogni aggiunta renda il sandwich più saporito. Fino a un certo punto risulta anche vero. Ad esempio finché riesci ancora a chiudere la mandibola. Ad esempio finché non cominci a mischiare ananas e mascarpone.
Il problema, con la musica di Diddy, è che tutto quanto sembra fasullo. Poco sincero. Così a poco vale chiamare quasi un produttore diverso per ogni traccia, da Swizz Beatz a Mario Winans. A poco vale far cantare Usher in “Looking for Love” o Grace Jones in “Yeah Yeah You Would”, e tantomeno riesumare la voce del defunto Notorious B.I.G. in “Angels”. Ma quel che più è paradossale è che, con tutto questo circo, la presenza di Sean Combs la si nota a fatica.
Marco Agustoni